BOSNIA/ERZEGOVINA – (19 Febbraio 2020)

Il cardinale Puljic arcivescovo di Sarajevo Il cardinale Puljic arcivescovo di Sarajevo 

Bosnia ed Erzegovina: voltare pagina sul passato

Il sanguinoso conflitto, che, alla fine del secolo scorso, sconvolse l’ex Jugoslavia, ancor oggi ha delle conseguenze sulla convivenza tra i vari nazionalismi che si sono affermati alla fine dei regimi comunisti e alla morte del presidente jugoslavo Tito. In particolare la Bosnia ed Erzegovina è alle prese con un processo di stabilizzazione che fatica a concludersi

Giancarlo La Vella – Città del Vaticano

Nel novembre 1995 l’Accordo di Dayton pose fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina, ultimo atto bellico della frantumazione della Jugoslavia. Etnie e nazionalismi, che solo il maresciallo Tito era riuscito a non far deflagrare, si opposero l’un l’altro con le armi per circa un decennio in quello che rappresenta il più grave conflitto che l’Europa ha vissuto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Slovenia, Croazia, Serbia, Repubblica di Macedonia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina sono gli Stati nati dopo quel periodo drammatico e doloroso. Ognuno porta con sé le ferite di un conflitto che all’epoca sembrava senza soluzione. La mediazione statunitense ed europea riuscì a far tacere le armi, ma ancora oggi ci sono problemi da risolvere.

Bosnia ed Erzegovina: realtà diverse in un unico Stato

La Bosnia ed Erzegovina di oggi è stata disegnata proprio dall’Accordo di Dayton, che ha riconosciuto nel Paese la presenza di due entità ben definite: la Federazione croato-musulmana, che detiene il 51% del territorio e la Repubblica Srpska, che ha il 49%. Le due entità create, pur dotate di poteri autonomi in vari settori, sono inserite in una cornice statale unitaria. Alla presidenza collegiale del Paese siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di capo dello Stato, che appare dunque come un ‘primus inter pares’. Esistono poi parlamenti locali e una Camera nazionale in cui sono rappresentati serbi, croati e musulmani. La soluzione di Dayton sembrò la migliore delle soluzioni da adottare per bloccare la guerra che aveva assunto connotazioni di contrapposizione etnica, ma sicuramente non ha consentito di archiviare tutti i problemi e alcuni cose sono ancora da chiarire. Quattromila persone sospettate di crimini di guerra devono ancora essere processate. Ci sono ancora frizioni tra le varie anime del Paese: i serbo-bosniaci minacciano la secessione e anche il fenomeno della migrazione, per quelle persone che scelgono la rotta balcanica, che dall’Africa consente di raggiungere l’Europa, sta diventando per Sarajevo di difficile gestione. Secondo Mauro Ungaro, direttore di Voce Isontina, pubblicazione della diocesi di Gorizia, occorre ancora un grosso impegno per pacificare il Paese a quasi 25 anni dalla fine della guerra.

Ascolta l’intervista a Mauro Ungaro

 

R. – Vorrei partire da una recente intervista del cardinale Vinko Puljić, arcivescovo di Sarajevo, che sarà presente a Bari all’incontro dei vescovi dei Paesi mediterranei. Il porporato sottolineava come la situazione nel Paese sia rimasta quasi ferma al momento degli accordi di Dayton, che ormai risalgono al 1995, e che stabilirono la tripartizione del Paese (bosniaci, serbi e croati) a partire dal collegio di presidenza, però di fatto passi in avanti non sono stati fatti.

Ci sono tensioni con la minoranza serba?

R. – È una situazione quella attuale, nella quale i nazionalismi si fanno sentire, tornano minacciosi, dove quella che è la strada per la pace imboccata peraltro dalle varie componenti, appare talvolta vicina e magari il giorno dopo molto lontana. Nel panorama politico e sociale del Paese si è poi inserita la problematica dei migranti, che interessa direttamente tutta la Bosnia ed Erzegovina.

Come la Bosnia ed Erzegovina sta gestendo il fenomeno migrazione?

R. – Noi non dobbiamo dimenticare che Tuzla, una delle principali città della Bosnia ed Erzegovina, è uno dei punti principali di passaggio per coloro che percorrono i corridoi balcanici. Nel corso degli anni c’è stata quasi un’inversione del giudizio da parte della maggioranza dell’opinione pubblica. Inizialmente i migranti e i rifugiati sono stati visti come vittime. Oggi, invece, si va sempre più diffondendo, anche in molti mass media, un’interpretazione che vede in questi uomini e in queste donne in movimento dei criminali. Questo crea notevoli problemi. Va però anche dato atto che c’è una notevole mobilitazione nel Paese, dove anche la Caritas è in prima linea, per cercare in qualche modo di dare un’accoglienza a questi popoli in movimento.

In che modo Sarajevo guarda all’Europa?

R. – Quello con l’Unione Europea è un rapporto che deve tenere conto di vari fattori. In questi momenti l’attenzione da parte di Bruxelles è soprattutto rivolta allo stato di diritto, che presenta delle carenze nel Paese e questo è il settore su cui maggiormente si sta lavorando per cercare di portare la Bosnia ed Erzegovina a quella adesione europea da molti auspicata, perché nell’ottica dell’adesione dei Balcani occidentali il Paese storicamente, ma anche simbolicamente, rappresenta qualcosa di veramente importante.

In questa realtà, qual è il ruolo della Chiesa, sia quella cattolica sia quella ortodossa?

R. – Vorrei ricordare che nell’incontro che Papa Francesco ha avuto in questi giorni con Željko Komšić, il presidente di turno della Presidenza collegiale della Bosnia ed Erzegovina, il Pontefice ha donato al capo dello Stato il documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana con una sottolineatura particolare. Il Santo Padre ha detto: “Può farlo leggere anche a sua moglie”, perché la moglie di Komšić è di religione musulmana. Questo è uno snodo fondamentale. Le religioni presenti sul territorio possono indubbiamente svolgere un ruolo fondamentale in questo itinerario verso la pace che la Bosnia ed Erzegovina deve assolutamente percorrere nel proprio futuro. D’altra parte, per quanto riguarda la realtà cattolica – sono parole del cardinale Puljić – in questi anni si è assistito a una vera e propria diaspora dal Paese. Prima della guerra i cattolici erano circa 800.000; oggi a malapena arrivano a 400.000 unità. Questa è una perdita che segna profondamente l’oggi, ma anche il domani del Paese in cui la comunità cattolica ha sempre svolto un ruolo fondamentale.

Il testo originale e completo si trova su:

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-02/bosnia-erzegovina-dayton-guerra.html

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