GIORDANIA – ( 11 Marzo )

Giordania, il dramma dei siriani «invisibili»

di Manuela Borraccino | 11 marzo 2013

Suor Alessandra Fumagalli con in braccio un neonato. (foto Cnewa)

(Roma) – Originaria di Busto Arsizio (Varese), 50enne, suor Alessandra Fumagalli dirige da cinque anni l’ospedale italiano con 40 posti letto fondato negli anni Trenta del secolo scorso a circa 150 chilometri da Amman, nell’area più povera della Giordania. Il nosocomio è tra le strutture coadiuvate dall’Associazione per l’assistenza ai cattolici del Vicino Oriente (Catholic Near East Welfare Association, Cnewa), braccio umanitario della Santa Sede per il Medio Oriente. Ma, dice la religiosa comboniana, i bisogni stanno aumentando e c’è bisogno dell’aiuto di tutti per aiutare questi profughi.

Suor Alessandra, chi raggiunge il vostro ospedale?
Pazienti della minoranza cristiana e dei musulmani beduini della zona, in particolare i Gorani, e da immigrati e rifugiati: iracheni, egiziani, cingalesi, pachistani e ora anche siriani. È fra queste persone che si accentua la nostra attenzione alla donna. Vengono a noi donne gravide per il parto, o per l’assistenza pre-natale; molte vengono da villaggi lontani perché desiderano partorire qui, oppure vengono con infanti o neonati, che hanno difficoltà respiratorie perché nelle case generalmente il riscaldamento non c’è e la gente usa le stufe a gas o elettriche.

Com’è cambiato il vostro lavoro con lo scoppio della guerra in Siria?
Dai media sappiamo che alla fine di febbraio erano arrivati in Giordania circa 200 mila rifugiati, con una forte componente di donne e bambini ed un picco di quasi 3.000 arrivi giornalieri a gennaio. Il nostro ospedale ha aperto le sue porte ai casi di emergenza poiché ad oggi non sono stati organizzati aiuti umanitari al Sud e noi suore stiamo cercando di sensibilizzare le associazioni affinché ci aiutino ad aiutare le persone che vengono a noi.

Lei ha detto che l’esistenza di queste profughe rischia di passare inosservata. Perché le considera invisibili?
In Siria si sta consumando una tragedia: certamente il mondo sa una piccolissima parte di quello che sta succedendo. Noi ascoltiamo i testimoni e ci sentiamo impotenti di fronte ai loro racconti. È in atto un esodo inarrestabile. I campi profughi aperti nel nord della Giordania dall’agenzia Onu per i rifugiati stanno già ospitando centinaia di migliaia di persone: queste ultime sono visibili e molte organizzazioni stanno cercando con l’aiuto del governo di fare il possibile per rispondere ai bisogni primari. Molti arrivano nei campi, ma per varie ragioni non desiderano essere registrati e se ne vanno in cerca di altre sistemazioni. Sappiamo che molte famiglie siriane hanno trovato rifugio nelle città e nei villaggi della Giordania, e in molti si stanno affidando al supporto delle organizzazioni e dei cittadini locali. Anche nel Sud del Paese nella provincia del Karak che comprende i villaggi di Tafile, Petra, Qatrani, si registra la presenza di rifugiati. Nella periferia di Karak hanno iniziato a venire alcune famiglie in cerca di un riparo e di un aiuto. Ne abbiamo visitata qualcuna. Diverse hanno bambini o adulti con problemi fisici che non consentono di stare nei campi. Raccontano il loro esodo e le loro paure scioccati da ciò che hanno sperimentato e dall’incertezza del futuro. Di questi gruppi non si parla, rimangono invisibili e rischiano di rimanere anche senza aiuti di primaria necessità. Le loro condizioni di vita sono dure soprattutto dal punto di vista sanitario; con l’aumento dei bisogni e il forte aumento del numero di persone bisognose d’aiuto, la situazione sta diventando sempre più acuta. È toccante l’aiuto dei vicini, abitanti giordani, che danno il poco che possiedono, o aiutano come possono, ma anche questo non è sufficiente.

Che cosa può fare l’opinione pubblica internazionale per sostenere i vostri sforzi?
Penso che la priorità sia prendere coscienza di cosa sta veramente succedendo, soprattutto per quanto riguarda i siriani che non sono raccolti nei campi. E come coordinare gli aiuti partendo dai bisogni fondamentali, anche avvalendosi del personale sanitario già in loco. Noi siamo qui, ma senza l’aiuto esterno non possiamo fare molto.

Che aiuto ricevete dal governo giordano?
Il governo giordano ha già le sue fatiche e difficoltà nel gestire questo grande afflusso: ammiriamo la sua disponibilità e apertura che ha permesso l’accoglienza e la sistemazione di molti rifugiati dentro i propri confini. Sappiamo che sta facendo il possibile per rispondere ai bisogni fondamentali con l’aiuto delle organizzazioni umanitarie. Ma i bisogni sono immensi. Noi siamo un ente no-profit privato e quindi non rientriamo nel protocollo degli aiuti. Tuttavia sottolineiamo che le autorità governative stimano la nostra presenza e ci sostengono in quello che possono perché sono consapevoli di quello che facciamo.

Qual è il fabbisogno economico del vostro ospedale?
L’ospedale riesce a mantenersi nell’ordinario, ma non ha la capacità finanziaria di affrontare spese straordinarie. Pertanto per l’acquisto di macchinari e apparecchiatura medica o per progetti ingenti o caritativi ci rivolgiamo ad associazioni varie. In questi ultimi anni la nostra struttura ha dovuto adeguarsi agli standard richiesti da Amman, rinnovando con un notevole sforzo e impegno la strumentazione e le apparecchiature a tutti i livelli. Inoltre stiamo aumentando l’estensione dell’edificio in vista dell’apertura di cliniche specialistiche non presenti in zona: ad esempio sarebbe urgente aprire una clinica per pazienti diabetici, che sono tantissimi e che qui al Sud non dispongono di una clinica endocrinologica, cosicché o non si curano o, i pochi che possono permetterselo, devono andare ad Amman.

 

Il testo completo si trova su:

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=4934&wi_codseq=  &language=it

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