La risoluzione 1441 delle Nazioni Unite, nel novembre 2002, aveva dato lultima possibilità agli ispettori Onu di verificare la presenza delle armi di distruzione di massa che il segretario di Stato Usa di allora, Colin Powell, aveva teatralmente dichiarato parlando al Palazzo di Vetro, di avere già trovato. Ma Bush e la coalizione dei volonterosi non aspettò il resoconto degli ispettori e decise che era il momento di forzare la mano per abbattere il regime criminale di Saddam Hussein. Un azzardo giustificato dallobiettivo di «esportare la democrazia» e di trasformare Baghdad nel «gioiello del Medio Oriente». Un modello, nelle intenzioni di George Bush, poi da far seguire.
Il primo raid, quella notte di dieci anni fa, tardò solo di qualche ora: la sera del 20 marzo in mano alla coalizione erano già caduti i principali pozzi petroliferi del Sud iracheno e il porto di Umm Qasr. I 260mila uomini della coalizione sbaragliarono in pochi giorni i 400mila soldati iracheni, tanto che della campagna dIraq oltre ai bombardamenti davvero chirurgici nella capitale si ricordano le tempeste di sabbia, le sole capaci di rallentare lavanzata. Il 9 aprile Baghdad era già presa mentre iniziava la caccia a Saddam Hussein e ai suoi gerarchi.
La speranza innestata dal cambio della guardia a Baghdad, dopo 24 anni di repressione poliziesca e criminale, riempì quella primavera. La libertà era una novità esaltante per gli iracheni abituati a non parlare mai in pubblico di politica e a vedere ovunque infiltrati del Mukhabarat, i terribili servizi segreti, capaci di far sparire nel nulla parenti ed amici. Sembrava la svolta e il 1° maggio George Bush, atterrato sulla portaerei Lincoln di rientro dalle operazioni di sostegno nel Golfo, ostentò un davvero prematuro «mission accomplished».
Lillusione di una veloce ricostruzione, però, durò ben poco: il graduale passaggio di poteri dai proconsoli americani alle autorità irachene avviò una transizione lenta e sanguinosa. Lattentato al Canal hotel di Baghdad sede del comando dellOnu nellagosto di 10 anni fa segnò, almeno simbolicamente, lavanzata di al-Qaeda. Dalla dittatura alla guerriglia per bande, con gli americani a fare da garanti alle istituzioni disegnate nella nuova Costituzione approvata nel 2005. Luccisione, il 7 giugno 2006, di Abu Musab al-Zarqawi in raid mirato delle forze statunitensi e limpiccagione di Saddam Hussein il 30 gennaio del 2006 dimostrano plasticamente la convivenza nei primi anni di dopo guerra di vecchio e nuovo terrore. La strage di Nassiryah il 13 novembre del 2003 (19 le vittime italiane) resta il prezzo più alto pagato dallItalia in questo sforzo di ricostruzione di un Paese.
Una difficile e costosissima transizione: 115mila le vittime civile. Il cambio di strategia e il ritiro del contingente Usa nellagosto del 2010 segnano la prova di maturità nelluscita dal dopo Saddam. Ma la sfida è ancora aperta: le elezioni del 2010 hanno riposto un Paese spaccato tra sciiti e sunniti capace solo dopo nove mesi di darsi un governo. Il nuovo Iraq è in potenza uno dei leader dellOpec, ma resta pure una base di al-Qaeda esposta allinfluenza del conflitto in Siria. La maggioranza sciita, al governo con al-Maliki, appoggia Assad mentre i sunniti sono vicini al fronte guidato da Arabia Saudita e Qatar.
Lattacco il 4 marzo scorso in Iraq del convoglio che riportava in Siria dei soldati siriani curati in un ospedale iracheno è stata la prima avvisaglia di una possibile internazionalizzazione. La voglia di rinascita è ben presente e questanno Baghdad è stata proclamata capitale della cultura araba. Ma solo giovedì scorso un commando terroristico ha potuto prendere dassalto il ministero della Giustizia: 30 morti e 50 feriti. La guerra, strisciante, non è ancora finita.
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