ISLAM – (29 Giugno)

Il ruolo dell’Islam politico nella Primavera Araba

Fin dai primi giorni delle rivoluzioni popolari che, partendo dalla Tunisia e poi dall’Egitto, si sono propagate in quasi tutto il Medio Oriente dando vita alla cosiddetta “Primavera Araba”, l’Occidente si è ripetutamente interrogato sul ruolo giocato dai partiti e dai movimenti islamici in queste rivolte, e sul peso politico che essi avrebbero avuto nel successivo periodo di transizione.

E’ stato detto più volte che i movimenti e le correnti di ispirazione islamica non hanno avuto un ruolo nello scoppio delle rivolte, e non sono stati alla guida del movimento popolare, il quale si è caratterizzato per l’assenza di slogan islamici nelle sue rivendicazioni.

Le forze politiche islamiche, al pari di tutte le forze di opposizione nei paesi arabi, sono state lungamente represse e perseguitate attraverso dure campagne di arresti e di intimidazione da parte dei regimi al potere, e di conseguenza non avevano la forza di organizzare un potente movimento di protesta.

Le rivolte popolari hanno invece colto di sorpresa i regimi proprio perché sono sorte dal basso, senza far riferimento a forze politiche organizzate, ma fondandosi sulle forze presenti nella società (giovani, operai, disoccupati, sindacati, esponenti della classe media, organizzazioni della società civile) spontaneamente organizzatesi per opporsi alla gestione dittatoriale ed oppressiva del potere da parte di tali regimi.

Il logico corollario dell’assenza di forze “ideologiche” all’interno del movimento popolare è stato l’assenza di slogan religiosi. Le rivendicazioni dei manifestanti si sono incentrate su principi universali, come i valori di libertà, giustizia, uguaglianza e rispetto dei diritti umani, e su battaglie “non ideologiche” come la lotta alla corruzione e all’oppressione economica, politica e sociale.

Allo stesso tempo, però, bisogna ricordare che queste sollevazioni popolari sono avvenute in paesi a maggioranza musulmana – cioè i cui cittadini si riconoscono in gran parte nella religione e/o nella cultura musulmana – e che sono musulmani coloro che hanno manifestato e si sono opposti ai regimi.

E’ dunque naturale e scontato che le forze politiche di ispirazione islamica giochino un ruolo di primo piano nella fase post-rivoluzionaria, accanto alle forze di ispirazione laica, poiché così come vi sono cittadini musulmani che si riconoscono in queste ultime, ve ne sono molti altri che si riconoscono nelle prime. Più precisamente – sostengono alcuni – si potrebbe dire che nella fase post-rivoluzionaria si sta profilando una competizione tra forze islamiche e forze laiche per stabilire chi riuscirà a guadagnarsi la fiducia e il consenso di masse popolari che appaiono ancora confuse su chi possa meglio incarnare le loro rivendicazioni.

Questo discorso ovviamente si applica in particolare a quei paesi in cui i regimi al potere sono crollati e nei quali si sta assistendo a una transizione verso una nuova forma di governo (cioè la Tunisia e l’Egitto). Ma la dialettica tra forze islamiche e forze laiche riguarda, seppure con forme e modalità diverse, tutto il mondo arabo, e dunque, ad esempio, anche quelle rivoluzioni che sono sfociate – o rischiano di sfociare – in una guerra civile, come quella libica, quella siriana e quella yemenita.

Sia in Tunisia e in Egitto, sia in paesi come la Siria, sebbene la sollevazione popolare sia stata spontanea e non ideologica, le forze politiche di ispirazione islamica hanno giocato un ruolo già durante la fase rivoluzionaria. Come già detto, non si è trattato certamente di un ruolo trainante (i movimenti islamici hanno preso parte alle rivolte solo quando erano già ben avviate e mostravano buone possibilità di avere la meglio sui regimi), ma di un ruolo che è stato non trascurabile a livello organizzativo, soprattutto nelle fasi più aspre dello scontro con gli apparati di sicurezza statali, se non altro perché i movimenti islamici sono stati tradizionalmente quelli più organizzati dal punto di vista gerarchico, logistico e finanziario.

L’ “ECCEZIONE” TUNISINA

In Egitto e in Tunisia, anche il dibattito e la competizione tra forze laiche e forze islamiche si sono affermati, in misura diversa, già durante la fase rivoluzionaria. Tuttavia, per molti aspetti la Tunisia può essere considerata un caso a sé stante in conseguenza del lungo processo di secolarizzazione che il paese ha vissuto fin dai tempi del’indipendenza (1957) e del successivo regime del presidente Bourguiba.

Malgrado il carattere spesso forzato di tale processo (caratterizzato dall’emarginazione delle istituzioni religiose, dall’imposizione del divieto di indossare il velo, dalla repressione delle usanze islamiche), sono eredi del patrimonio laico e liberale della Tunisia sia le forze laiche che quelle islamiche.

I tunisini parlano a questo proposito di “eccezione tunisina”.

Per le popolazioni urbane del nord e della zona costiera del paese, dove vivono le élite ricche, più istruite e liberali, questo patrimonio laico è sempre stato fonte di orgoglio. Esso comprende una legge sullo statuto personale che prevede il divorzio su basi paritarie, e leggi che difendono le pari opportunità per le donne nell’ambito lavorativo e in quello dell’istruzione.

Tuttavia la Tunisia ha anche un’identità islamica radicata nella società, che si riflette in un panorama politico islamico tutt’altro che monolitico, nel quale ha luogo un dibattito vitale e dinamico che spesso è in grado di interpretare le esigenze di ampie fasce della popolazione più di quanto non riescano a fare le forze di ispirazione laica.

Ad esempio, il partito “Nahda”, che storicamente rappresenta il partito islamico più radicato nella società tunisina, e che attualmente si sta riorganizzando dopo lunghi anni di durissima repressione da parte del regime, in diversi casi sembra riuscire a dar voce alle preoccupazioni economiche e sociali di vasti settori della popolazione, soprattutto nella parte centro-meridionale del paese, economicamente depressa. Le battaglie dei laici, per converso, non sembrano avere molto seguito al di fuori delle città costiere, tradizionalmente più ricche, ed in molti casi devono fare i conti con il fardello aggiuntivo di essere confuse con le politiche inique del vecchio regime.

Questa contrapposizione tra forze islamiche e forze laiche, che è una conseguenza della frattura culturale imposta dal colonialismo e dalle politiche dei regimi post-coloniali, è destinata a caratterizzare ancora a lungo il panorama politico tunisino, e probabilmente a rallentare l’evoluzione democratica della Tunisia a causa della difficoltà di trovare un accordo sui principi condivisi da porre alla base dell’identità nazionale del paese.

Nella fase post-rivoluzionaria, le élite laiche e liberali hanno cominciato a temere che l’ascesa delle forze islamiche potesse imporre un nuovo ordine politico in grado di cancellare le conquiste laiche del paese.

Dal canto loro, molte forze islamiche vogliono recuperare (ovviamente ciascuna secondo i propri schemi e le proprie convinzioni, che possono essere più o meno liberali) quei valori religiosi e culturali che, a loro giudizio, garantirebbero un’evoluzione della società verso una maggiore giustizia ed uguaglianza, dopo che i valori egoistici ed individualistici promossi dal vecchio regime laico hanno portato al dilagare della corruzione e dell’ingiustizia sociale.

Il futuro della Tunisia si gioca pertanto anche sulla possibilità di giungere ad una riconciliazione tra istanze islamiche e laiche, ed alla definizione di principi condivisi in grado di garantire una maggiore omogeneità e solidarietà tra le diverse componenti della società tunisina, sostenendo quei valori di libertà, dignità e giustizia per i quali i promotori della rivoluzione hanno combattuto, contro un regime che, prima ancora che “laico”, era “predatorio”, fondato sulla corruzione e sulle clientele, e su un modello neoliberista selvaggio che si è rivelato devastante per il paese.

Al momento, l’ostacolo più grande alla realizzazione degli obiettivi della rivoluzione tunisina è rappresentato proprio dal fatto che il vecchio apparato di potere e le vecchie logiche economiche non sono ancora stati smantellati. Il rischio è che un inasprimento della contrapposizione “laici/islamici” faccia passare definitivamente in secondo piano la necessità di rimuovere questo ostacolo.

LA BATTAGLIA PER L’EGITTO

Una contrapposizione analoga si presenta in Egitto, tuttavia con alcune aggravanti assolutamente non trascurabili: la maggiore frammentazione della società egiziana, il carattere complessivamente meno liberale del panorama politico islamico nel paese, ed il ruolo chiave che a livello geopolitico l’Egitto occupa nella regione, il quale fa sì che molti attori regionali ed internazionali nutrano il desiderio che la transizione egiziana evolva secondo un orientamento non in contrasto con i loro interessi.

Lo scontro in corso in Egitto può essere descritto, secondo le parole di un commentatore egiziano, come una “battaglia sulla natura dello Stato egiziano”. In tale battaglia si fronteggiano due schieramenti: quello di coloro che hanno appoggiato gli emendamenti costituzionali, e che vogliono che una nuova costituzione venga formulata solo dopo le elezioni previste a settembre, e quello di coloro che chiedono a gran voce che la formulazione di una costituzione interamente nuova preceda le elezioni.

Il primo schieramento è formato essenzialmente dalle forze di ispirazione islamica, ed in particolare dai Fratelli Musulmani – la forza di opposizione tradizionalmente più organizzata nel paese, che ritiene di trarre vantaggio dall’attuale costituzione e da un rapido svolgimento delle elezioni, che non permetterebbe alle altre formazioni politiche di organizzarsi adeguatamente.

Il secondo schieramento è formato essenzialmente dalle forze laiche, le quali ritengono che solo dopo l’approvazione di una nuova costituzione che cancelli definitivamente gli squilibri del vecchio sistema di governo e fondi le basi di una vera democrazia, le forze politiche potranno confrontarsi su base paritaria in una competizione elettorale libera ed imparziale.

Dietro quella che potrebbe sembrare una semplice lotta per il potere si nasconde però una contrapposizione ben più profonda, tra due diverse concezioni dello Stato. Lo schieramento islamico vorrebbe uno Stato che si ispiri ai principi dell’Islam: uno “Stato civile basato sull’Islam”, come vorrebbero i Fratelli Musulmani (cioè uno Stato che – partendo dall’originario carattere universalistico dell’Islam, una religione che tollera le minoranze e la diversità – sia fondato sulla volontà popolare attraverso lo svolgimento di libere elezioni, e garantisca i diritti civili delle minoranze e dei gruppi svantaggiati, non sulla base del principio di laicità, ma appunto sulla base del principio universalista dell’Islam), oppure una vera e propria teocrazia fondata sulla sharia, come vorrebbero i gruppi salafiti e le correnti jihadiste (che restano però forze minoritarie nel paese).

Lo schieramento laico chiede invece apertamente uno Stato fondato sul principio di laicità, partendo dall’assunto che quella egiziana è una società multiconfessionale ed estremamente differenziata al suo interno, dove soltanto separando totalmente la religione dalla politica e anteponendo il principio di cittadinanza all’appartenenza religiosa si possono garantire i diritti di tutti.

Buona parte della battaglia che verte attorno all’attuale costituzione è in effetti incentrata sull’articolo 2, in base al quale l’Islam è dichiarato religione di Stato e fonte del diritto. Le forze islamiche temevano che, se il referendum sugli emendamenti costituzionali fosse fallito, si sarebbe passati direttamente all’elaborazione di una nuova costituzione prima di convocare le elezioni, con il conseguente rischio che l’articolo 2 venisse escluso dal nuovo testo costituzionale, e con esso venisse cancellato ogni riferimento all’Islam.

I Fratelli Musulmani ritengono che non vi sia contraddizione tra uno Stato fondato sull’Islam e la salvaguardia dei diritti di tutti i cittadini, tanto più che l’articolo 7 della costituzione attualmente in vigore sancisce l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, a prescindere dalla razza e dalla religione. I laici, dal canto loro, temono che l’articolo 2 possa diventare il fondamento di uno Stato islamico che discrimini la comunità copta e le altre minoranze.

I FRATELLI MUSULMANI COME STRUMENTO DELLA “CONTRORIVOLUZIONE” NEL MONDO ARABO?

Va detto però che le credenziali democratiche dei Fratelli Musulmani devono ancora essere messe alla prova, e numerosi osservatori egiziani ritengono che la leadership storica del movimento sia tuttora dominata da un orientamento illiberale.

Lo dimostrerebbe il fatto che, decidendo di votare a favore degli emendamenti costituzionali, i Fratelli Musulmani hanno permesso al Supremo Consiglio delle Forze Armate (SCFA), che attualmente gestisce il potere in Egitto, di mantenere in vigore la costituzione del vecchio regime con alcune modifiche puramente “cosmetiche”. E’ questa fra l’altro la ragione per cui a favore degli emendamenti si sono schierati (oltre che ovviamente l’SCFA che li ha promossi) anche i resti del vecchio partito di governo, il Partito Nazionale Democratico (NDP).

Ciò ha spinto molti a parlare dell’esistenza di un tentativo di “controrivoluzione” in Egitto, che sarebbe fondato su un patto tra forze armate, Fratelli Musulmani e resti dell’NDP, a scapito delle forze laiche e rivoluzionarie del paese.

In realtà, a guidare la leadership dei Fratelli Musulmani sembra essere soprattutto la preoccupazione di aggiudicarsi un ruolo di primo piano nel nuovo Egitto che si sta delineando. Così facendo, però, essa rischia di alienarsi definitivamente le forze egiziane laiche, e di compromettere il fragile processo democratico in atto.

Alcuni commentatori arabi hanno ricordato come storicamente la Fratellanza Musulmana abbia finito spesso per schierarsi con le forze più conservatrici nel mondo arabo.

Emarginata e perseguitata da Gamal Abdel Nasser in Egitto all’indomani della rivoluzione degli “ufficiali liberi” del 1952, essa si trovò osteggiata anche dai sostenitori di Nasser nel mondo arabo. I Fratelli Musulmani si schierarono a quel punto con regimi monarchici come quello hascemita in Giordania e quelli del Golfo, di fatto i regimi più oscurantisti (sebbene il regime di Nasser o i regimi baathisti in Siria e in Iraq non fossero certo delle democrazie).

Erano i tempi in cui la guerra fredda araba tra due schieramenti – quello panarabo guidato da Nasser e quello monarchico guidato dai sauditi – rifletteva a livello regionale la Guerra Fredda planetaria fra sovietici e americani.

Molti esponenti dei Fratelli Musulmani furono ospitati dall’Arabia Saudita. Sebbene Riyadh abbia sempre nutrito una certa diffidenza nei confronti di questo movimento poiché la sua ideologia non coincide con l’ideologia wahhabita che rappresenta il fondamento della monarchia saudita, attraverso il sostegno di Riyadh i Fratelli Musulmani divennero il megafono della propaganda antisovietica (tanto cara agli americani) nella regione.

La rinascita dei Fratelli Musulmani in Egitto ebbe luogo dopo la sconfitta araba nella guerra del 1967, che segnò il declino di Nasser. Tale rinascita fu aiutata dal successore di quest’ultimo, Anwar Sadat (il quale cambiò lo schieramento dell’Egitto a livello internazionale, ponendolo al fianco di Washington e facendo la pace con Israele), allo scopo di contrastare l’opposizione di sinistra e quella dei nasseristi in Egitto, ancora una volta con il sostegno saudita.

Un meccanismo non del tutto dissimile si generò in Siria: negli anni ’80 i Fratelli Musulmani siriani furono sostenuti dalla monarchia hascemita giordana contro il regime baathista di Hafez al-Assad. Molti anni più tardi, i sauditi aiutarono ancora i nemici di Damasco mediando un’alleanza tra la Fratellanza siriana e l’ex vicepresidente siriano Abdel Halim Khaddam, cacciato dal regime nel 2005.

Pur avendo un rapporto conflittuale con i regimi arabi, i Fratelli Musulmani si sono spesso rivelati funzionali a tali regimi, in Egitto come in Giordania (dove il rapporto fra la monarchia e la Fratellanza locale è stato caratterizzato da una lunga alleanza). In questi paesi, infatti, i Fratelli Musulmani si sono mostrati disposti a scendere a patti con i regimi sul piano politico pur di avere margine di manovra in ambito sociale e di poter svolgere la loro azione di proselitismo.

Ora molti temono che un meccanismo analogo possa ripetersi in Egitto. Numerosi osservatori ed esponenti delle forze laiche accusano i Fratelli Musulmani di aver stretto un patto di spartizione del potere con le forze del vecchio regime: i militari e i resti dell’NDP. Un simile patto avrebbe la benedizione dei sauditi, interessati a mantenere lo status quo nella regione (e accusati di finanziare i movimenti islamici egiziani in generale, ed i movimenti salafiti in particolare).

Secondo i sostenitori di questa tesi, tale patto avrebbe il beneplacito degli stessi Stati Uniti, per ragioni non troppo dissimili da quelle di Riyadh: Washington preferirebbe pur sempre un Egitto in mano ai militari (legati da un rapporto di vecchia data con gli americani) ed ai Fratelli Musulmani (influenzabili da Riyadh), rispetto a un Egitto realmente democratico che modellerebbe la propria politica estera solo in base alle spinte delle proprie forze politiche interne e della propria opinione pubblica.

Dietro il carattere “malleabile” dei Fratelli Musulmani, disposti a scendere a patti con i resti del vecchio regime e con le forze straniere che in passato lo hanno sostenuto (piuttosto che allearsi con le forze egiziane realmente democratiche), vi sarebbe essenzialmente una leadership sclerotizzata che tende in ogni caso ad anteporre l’autoconservazione del movimento ad ogni altra considerazione.

Tuttavia, questa leadership si trova comunque a dover fronteggiare incognite imprevedibili, originate proprio dall’attuale processo di transizione. La Fratellanza, tradizionalmente caratterizzata da una base ideologica molto ampia, si trova necessariamente a dover compiere delle scelte più precise, e a dover definire dei programmi più chiari di fronte alle sfide politiche che l’attendono.

La decisione della leadership di far rappresentare il movimento da un’unica formazione politica, il Partito della Libertà e della Giustizia, i cui esponenti sono stati nominati invece di essere eletti dalla base della Fratellanza, ha creato numerosi malumori all’interno del gruppo.

Indicativi di tali tensioni sono stati la recente espulsione del riformista Abdel Moneim Aboul Fotouh, e l’annuncio da parte di giovani esponenti della Fratellanza di voler creare un partito laico, la Corrente Egiziana (al-Tayyar al-Masri). Questi episodi denotano l’esistenza di forti contrasti all’interno del movimento, tra riformisti e conservatori, e soprattutto fra vecchie e nuove generazioni. Tali fratture potrebbero rivelarsi insanabili e portare alla nascita di nuovi soggetti politici.

MODELLO TURCO O MODELLO PAKISTANO?

In generale il crollo del regime di Mubarak, e l’apertura di uno spazio politico rimasto fino a pochi mesi fa soffocato dalla monopolizzazione del processo politico da parte del partito di governo, hanno determinato una vera e propria esplosione di nuove formazioni politiche, fra cui spiccano quelle di ispirazione islamica.

Oltre al nuovo partito dei Fratelli Musulmani, vi sono le correnti salafite (in passato contrarie alla partecipazione politica) che hanno dato vita a due partiti: al-Nur e al-Fadila. E perfino le correnti jihadiste, che nei decenni passati avevano scelto la strada del confronto armato con il regime, hanno deciso di scendere nell’arena politica. Ciò ha creato un intero spettro di forze politiche islamiche, che si estende dalle tendenze più liberali a quelle più conservatrici.

E’ opinione di molti osservatori che questa apertura senza precedenti dello spazio politico porterà sul medio e lungo periodo alla nascita di partiti islamici più pragmatici e meno ideologici. Secondo l’analista Khalil el-Anani, nei programmi di questi partiti l’importanza delle questioni legate all’identità, alla forma dello Stato, e al ruolo della religione nella sfera pubblica, cederanno progressivamente il passo alle questioni legate all’istruzione, alla sanità, alla creazione di posti di lavoro, e così via.

Ma tutto questo avverrà solo a patto che la transizione democratica egiziana giunga a buon fine, e che l’aspra contrapposizione tra correnti laiche e correnti islamiche si stemperi tramite l’identificazione di alcuni principi condivisi.

L’emergere di queste problematiche ha spinto molti – nel mondo arabo, ma anche in Occidente – a cercare possibili modelli che possano servire da punto di riferimento in questa difficile transizione. In particolare si è fatto un gran parlare del cosiddetto “modello turco”, prefigurando una graduale trasformazione dei movimenti islamici arabi – e, nello specifico, dei Fratelli Musulmani (soprattutto per quanto riguarda l’Egitto) – nell’equivalente arabo del Partito “Giustizia e Sviluppo” (AKP) in Turchia.

Tuttavia – al di là dei limiti intrinseci allo stesso modello turco, che non rappresenta tuttora una democrazia compiuta, e nel quale sussiste ancora un’aspra contrapposizione fra laici ed islamici – diversi osservatori hanno messo in rilievo i rischi insiti nella tentazione di ricorrere a modelli decontestualizzati e a indebite generalizzazioni.

A questo proposito, è stato rilevato che: 1) il “modello turco” è il risultato del sovrapporsi di decenni di secolarizzazione forzata al carattere storicamente composito ed aperto dell’Islam turco; 2) i partiti islamici in Turchia sono un fenomeno recente che ha cominciato ad acquisire influenza politica a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, mentre i Fratelli Musulmani hanno alle loro spalle quasi un secolo di storia che ha prodotto dei principi ideologici alquanto cristallizzati; 3) l’AKP ha deciso da tempo di aderire ai principi della democrazia all’interno di uno Stato laico, mentre molti movimenti islamici arabi ancora dibattono su quale debba essere la forma dello Stato, e non sembrano aver accettato il principio della laicità dello Stato.

I Fratelli Musulmani – ha scritto il giornalista egiziano Abdel Halim Qandil, coordinatore del movimento di opposizione “Kifaya” – non assomigliano affatto all’AKP, ma semmai al Partito della Felicità (Saadet Partisi) che non è mai riuscito a entrare nel parlamento turco.

Se, dunque, un modello vicino a quello turco potrebbe in qualche modo affermarsi in Tunisia (dove il primo presidente, Habib Bourguiba, fu paragonato da molti a Mustafa Kemal, “padre dei turchi”), alcuni temono che in Egitto – qualora dovesse persistere l’attuale clima di tensione e di aspre contrapposizioni a livello politico, sociale e confessionale – possa affermarsi un “modello pakistano”, dove un esercito con tendenze islamiche sovrintenderebbe dietro le quinte a un governo “civile” guidato da uno o più partiti islamici “eletti”.

Secondo coloro che paventano questo scenario, uno Stato di questo genere affiancherebbe ad una possibile acquiescenza e subordinazione in politica estera e nelle politiche economiche un’intransigenza culturale e religiosa sul piano interno. Esso garantirebbe la sudditanza dell’Egitto a livello regionale ed internazionale  per gli anni a venire, ed una rapida chiusura del fragile spazio democratico aperto dalla rivoluzione in questi mesi, a vantaggio di un inasprimento delle tensioni settarie e dell’intransigenza ideologica e religiosa.

Questa ipotesi rappresenta indubbiamente lo “scenario peggiore”, che tuttavia potrebbe facilmente verificarsi qualora dovessero persistere le condizioni attuali – il pugno di ferro adottato dall’esercito, la polarizzazione tra forze islamiche e laiche, le tensioni confessionali fra musulmani e copti – affiancate da un inasprimento della crisi economica e sociale nel paese, e da un progressivo affermarsi, nel panorama della forze islamiche, di quelle più conservatrici (ed allo stesso tempo potenzialmente soggette all’influenza di forze islamiche esterne).


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