Nel marasma libico, tuttavia, è bene evitare di rincorrere le iperboli e di accreditare all’Is una forza superiore a quella che realmente essa oggi detiene. Perché di fatto, queste milizie che combattono in nome dello Stato islamico della provincia di Tripoli sono per lo più formazioni paramilitari già presenti sul territorio, che si sono legate all’Is dopo le vittorie del movimento nel Levante dello scorso anno. E a cui si è aggiunto un “battaglione” di veterani libici che combattevano in Siria e Iraq, rientrati nel loro Paese per rafforzare la capacità di azione delle forze del Califfato. E tuttavia, non tutte le milizie jihadiste e islamiste si riconoscono nell’Is o sono pronte ad accettarne la supremazia; anzi, sembrano moltiplicarsi gli scontri interni all’attivismo islamico violento, accentuando ancor più il caos e l’anarchia politica.
Quanto vediamo oggi è la polverizzazione estrema di ogni forma di autorità e potere, in particolare lungo la costa, dato che all’interno del Paese, il sistema tribale tradizionale ha in qualche modo attenuato la disgregazione e la conflittualità. A Tobruk, nell’Est della Cirenaica, si sono insediati il governo e il Parlamento legittimo, usciti dalle elezioni dell’estate 2014, che avevano visto la vittoria dei partiti laici. Vittoria mai accettata dai movimenti islamisti, che contestavano la bassissima affluenza alle urne. A presiedere un governo dai poteri pressoché simbolici il premier Abdullah al-Thani, appoggiato dal generale Khalifa Haftar, il quale dovrebbe guidare le quasi inesistenti Forze armate nazionali. A Tripoli, siede invece il cosiddetto Parlamento rivale, una creazione del vecchio Congresso nazionale generale (Gnc), la precedente Assemblea, dominata dagli islamisti, che ha rifiutato di sciogliersi e di riconoscere quella nuova. Cardine della sua forza sono le potenti milizie di Fajr Libya (l’Alba libica), la cui ossatura è rappresentata dai rivoluzionari di Misurata, legate ai Fratelli Musulmani e ad alcuni gruppi salafiti.
In più, vi sono bande di criminali comuni, milizie e movimenti locali, accordi inconfessati e rivalità personali: insomma un’atomizzazione estrema del potere che impedisce a tutti i gruppi presenti di consolidare la propria presa e di proporsi quale forza unificante. Finora le divisioni e i veti reciproci sono stati più efficaci di qualunque appello alla ragionevolezza: le fazioni in lotta hanno preferito distruggere il giocattolo piuttosto che accordarsi su come usarlo insieme.
La comunità internazionale è stata finora debolissima e riluttante a affrontare con determinazione il caos libico, affidandosi ai tentativi di pacificazione nazionale proposti dal capo della missione Onu, Bernardino Leon, e finora a nulla approdati. Molti Paesi, gli Stati Uniti fra tutti, sono sembrati finora distratti e poco interessati; del resto, hanno sempre detto a Washington, la guerra di Libia è stata una scelta soprattutto europea. O meglio: di Francia e Gran Bretagna, più che dell’Europa; due nazioni che aspiravano a svolgere un ruolo primario nella Libia post-Gheddafi e si trovano ora a osservare il disastro di una transizione politica affrettata e non pianificata. Né paiono molto più risolutivi i bombardamenti estemporanei di Egitto e delle monarchie arabe del Golfo contro le milizie islamiste.
Da qui la necessità di far capire alle litigiose forze politiche, capaci in questi anni solo di delegittimarsi a vicenda, che i tempi dei tatticismi e dei veti sono finiti. Le forze laiche rintanate a Tobruk debbono smettere la campagna di demonizzazione di ogni gruppo islamista, parificando i Fratelli musulmani ai terroristi dell’Is. Gli islamisti, dal canto loro, devono dare un taglio netto alle ambiguità delle loro milizie e ai rapporti con le frange più violente e jihadiste. Occorre inoltre fermare la corsa a mettere nell’angolo tutti coloro che hanno lavorato in qualche modo sotto il lungo regime di Gheddafi. La minaccia per l’Italia e tutta l’Europa è troppo seria per non costringere tutti a chiarire le proprie posizioni e a rivedere le propri politiche. Ognuno si deve assumere la sua responsabilità. E pagarne lo scotto.
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