MEDIORIENTE – (19 Settembre)

La scommessa azzardata di Mahmoud Abbas

Il 23 settembre chiederà all’Onu l’adesione di uno Stato palestinese

di Paul De Maeyer

ROMA, domenica, 18 settembre 2011 (ZENIT.org).- In un discorso televisivo, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (ANP), Mahmoud Abbas (conosciuto anche come Abu Mazen), ha annunciato venerdì 16 settembre che chiederà la settimana prossima l’ingresso della Palestina come membro a pieno titolo nell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). “E’ il nostro diritto legittimo di chiedere la piena adesione dello Stato della Palestina alle Nazioni Unite”, ha dichiarato Abbas, che parlerà alla 66.ma sessione dell’Assemblea generale dell’ONU venerdì 23 settembre (Agence France-Presse, 16 settembre).

Secondo il presidente dell’ANP, la mossa servirà a “porre fine ad una ingiustizia storica per raggiungere la libertà e l’indipendenza, come gli altri popoli della terra, in uno Stato palestinese entro i confini del 4 giugno 1967”. Nel piano di Abbas, si tratta dunque di ritornare ai confini precedenti alla “Guerra dei sei giorni” (5-10 giugno 1967, stravinta da Israele) e la sua Palestina includerebbe dunque la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Fino ad oggi, i confini del 1967 sono considerati la base per una pace in Medio Oriente da quasi tutti gli interlocutori, incluso il presidente americano Barack Obama, come ha indicato nel suo discorso al mondo arabo del 19 maggio scorso. Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, si tratta invece di una soluzione irrealistica: uno Stato ebraico entro i confini del 1967 è militarmente indifendibile e inoltre quasi mezzo milione di israeliani vivono oggi nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

Nonostante iniziative diplomatiche dell’ultima ora da parte di Washington, le autorità palestinesi non hanno voluto fare marcia indietro e desistere dal loro progetto. “La decisione è irreversibile dopo la testardaggine di Israele e la sua continua persecuzione del popolo palestinese. Il governo di Israele non vuole la pace o negoziati seri e pratici”, ha detto giovedì 15 settembre Zakaria al-Agha, membro del Comitato centrale di Fatah a Gaza (Ynetnews, 15 settembre). Inoltre – così ricordano i palestinesi – la decisione di presentare la domanda all’ONU rispetta la “deadline” di settembre 2011 posta dal Quartetto per il Medio Oriente (Unione Europea, Russia, USA e ONU) per la realizzazione della soluzione detta “dei due Stati”.

Come ha spiegato il 16 settembre la BBC in un Q&A (Domanda e risposta), la strada per diventare membro a pieno titolo dell’ONU passa dal Consiglio di sicurezza. Dopo il suo discorso, Abbas dovrà presentare la richiesta al segretario generale ONU, Ban Ki-moon, che la inoltrerà all’organismo. Per il pieno riconoscimento, la domanda deve ottenere l’ok di almeno 9 membri su 15 del Consiglio ed incassare nessun veto da parte di uno dei 5 membri permanenti. E proprio qui si bloccherà l’iniziativa: l’amministrazione Obama ha già annunciato che gli USA faranno ricorso al diritto di veto.

Nel caso di veto nel Consiglio di sicurezza, c’è ancora un altro percorso, che però non permette di accedere allo status di membro a pieno titolo. L’Assemblea generale potrà votare una risoluzione (basta una maggioranza semplice), che consentirà alla Palestina di passare dall’attuale status di “entità” a quello di “Stato non membro”, una condizione simile a quella della Santa Sede dal 1964 o della Svizzera fino al 2002. La votazione può aver luogo entro 48 ore dalla presentazione della risoluzione ma probabilmente verrà rimandata a fine settembre o inizio ottobre, una mossa che secondo la BBC permetterà di guadagnare tempo per negoziare un testo che otterrà il massimo consenso possibile. Lo status ibrido di “Stato non membro” garantisce comunque alla Palestina l’accesso a strumenti come la Corte penale internazionale (ICC) e la Corte Internazionale di giustizia (ICJ), una prospettiva che non alletta di certo Israele.

La scelta di Abbas, che secondo Le Figaro (16 settembre) si è incagliato negli ultimi mesi in una “posizione senza uscita”, rappresenta una scommessa dall’esito ignoto. Un riconoscimento solo parziale di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 rischia di aumentare ulteriormente il senso di frustrazione nella popolazione palestinese, già enorme dopo decenni di negoziati falliti. “Ovviamente la frustrazione può trasformarsi in caos”, ha spiegato al New York Times (14 settembre) un profugo palestinese, Najeh Abd al-Majid. “Noi non vogliamo una posizione d’onore”, ha aggiunto Qusai Khatib, abitante di Kalandia, una località con annesso campo profughi posta tra Gerusalemme e Ramallah.

Nonostante il patto di riconciliazione firmato questa primavera al Cairo tra al-Fatah e il partito di Hamas a Gaza, la mossa di Abbas rischia anche di inasprire nuovamente i rapporti tra le due maggiori fazioni palestinesi. Hamas, che mira ad un ritorno alla Palestina “storica” e non intende riconoscere anche solo di fatto lo Stato ebraico, non condivide la strategia del presidente dell’ANP. Per il movimento islamico, il progetto di Abbas non è altro che “una mossa cosmetica che non porterà ad alcun risultato” (Ynetnews, 15 settembre). Già a luglio, Mahmoud Zahar, cofondatore di Hamas, aveva definito l’iniziativa un “raggiro politico” (BBC, 16 settembre).

Il rifiuto da parte di Israele è nettissimo, come rivela un comunicato dell’ufficio del primo ministro Netanyahu. “Non si raggiunge la pace con un approccio unilaterale alle Nazioni Unite, e non associandosi con l’organizzazione terroristica Hamas”, si legge (Agence France-Presse, 16 settembre). “La pace – così continua – potrà essere raggiunta solo attraverso negoziati diretti con Israele”. Il governo di Gerusalemme sa comunque che non può fermare l’iniziativa palestinese. “Purtroppo – ha dichiarato Yossi Peled, ministro senza portafoglio – Israele non ha i mezzi per impedire ai palestinesi di chiedere l’adesione del loro Stato alle Nazioni Unite”. “Ma indubbiamente l’iniziativa non passerà attraverso il Consiglio di sicurezza, e ci lascerà spazio per negoziare”, ha aggiunto.

Anche Washington non vede di buon occhio la decisione dell’ANP di chiedere l’adesione a pieno titolo all’ONU. “Noi crediamo che ogni gesto, ogni movimento a New York, a tal fine sia controproducente a ciò che dovrebbe essere il vero obiettivo, cioè dei negoziati diretti tra le parti”, ha ribadito il vice portavoce del dipartimento di Stato, Mark Toner. Per gli USA, la mossa palestinese è d’altronde piena di insidie. Un nuovo veto (sarebbe infatti il secondo quest’anno dopo il “no” statunitense al Consiglio di sicurezza su una risoluzione di condanna degli insediamenti ebraici) è destinato ad affossare gli sforzi compiuti da Washington per rifarsi un’immagine nel mondo arabo.

Poi c’è l’Europa, che con i suoi aiuti per circa un miliardo di euro è il più grande sostenitore finanziario e politico dei palestinesi. Per il New York Times (12 settembre), l’iniziativa palestinese al Palazzo di Vetro trasformerà il Vecchio continente in un “campo di battaglia diplomatico”. I Paesi europei, alle prese con le conseguenze della crisi economica (in particolare con il salvataggio della Grecia e della zona euro), affrontano “aspramente divisi” la questione. Mentre alcuni Paesi membri dell’Unione, come Germania e Polonia, forse si asterranno dal voto o voteranno contro la risoluzione, altri, come Francia e Spagna, potrebbero invece appoggiare l’iniziativa.

Attualmente, solo 9 dei 27 Paesi membri dell’UE riconoscono formalmente uno Stato palestinese all’interno dei confini del 1967, ma il loro numeropotrebbe aumentare, anche per la frustrazione nei confronti della politica del governo Netanyahu. Alcuni esperti, come Rashid Khalidi, professore di Studi Arabi Moderni presso la Columbia University di New York, ritengono d’altronde che sia arrivato il momento per l’Europa di uscire dall’ombra statunitense e di pensare ai propri interessi nella regione. “E’ ora che gli europei riconoscano i loro interessi in Medio Oriente”, ha detto Khalidi al New York Times. “Il Medio Oriente è troppo importante per essere lasciato agli Stati Uniti”.

“Noi continuiamo a credere che una soluzione costruttiva in grado di raccogliere il maggior sostegno possibile e consentire la ripresa dei negoziati sia il migliore ed unico modo per offrire la pace e la soluzione dei due Stati che il popolo palestinese vuole”, ha detto Jaja Cocijanic, portavoce dell’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari esteri, Catherine Ashton (Agence France-Presse, 16 settembre). Secondo Daniel Levy e Nick Witney, specialisti del Medio Oriente presso l’European Council on Foreign Relations a Londra, l’Europa potrebbe infatti dare un contributo importante alla stesura di una risoluzione. “Gli europei potrebbero aiutare a stendere una bozza di risoluzione ONU che potrebbe includere nel testo le preoccupazioni israeliane per la sua sicurezza e un riconoscimento del suo diritto ad esistere”, così hanno detto (The New York Times, 12 settembre).

Anche se le autorità palestinesi stanno cercando in ogni modo di evitare che la “Campagna 194”, che mira a trasformare la Palestina nel 194° Paese membro dell’ONU, possa scatenare una nuova Intifada contro Israele, ci sono tutti i presupposti per un autunno caldo in una regione più che mai instabile. Lo dimostra la notizia che il governo del primo ministro egiziano Essam Sharaf non esclude delle modifiche agli accordi di pace del 1979 con Israele. “Il Trattato di Camp David è sempre aperto a qualsiasi discussione e modifica se queste sono vantaggiose per la regione e per una pace giusta. Il trattato di pace non è qualcosa di sacro e può essere modificato”, ha detto Sharaf in un’intervista concessa alla televisione turca (Youm7, 15 settembre).

Alla luce di questo clima sempre più esplosivo va letta la dichiarazione in cinque punti diffusa nei giorni scorsi dai capi delle Chiese di Gerusalemme. Nel breve testo, disponibile sul sito Terrasanta.net (13 settembre), gli undici firmatari (tra i quali il patriarca greco-ortodosso, Theophilos III, il patriarca latino, Fouad Twal, e il custode di Terra Santa, fra Pierbattista Pizzaballa, OFM) ribadiscono la priorità della soluzione dei due Stati – la quale “serve alla giustizia e alla pace” – e del dialogo. “Il negoziato è il mezzo migliore per risolvere i problemi irrisolti tra le due parti”, dice il terzo punto della dichiarazione, che si conclude con un versetto dei Salmi. “Amore e verità si incontrano, giustizia e pace si abbracciano” (Salmo 85, 11), così ricordano i firmatari.


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