NIGERIA – ( 14 Aprile 2016 )

Nigeria

Le liceali rapite, dimenticare non si può
 
 
Fulvio Scaglione
 
 
 
 
​Rachel Daniel, 35 anni, mostra la foto della figlia rapita, Rose Daniel, 17 anni
Accanto l’altro figlio Bukar, 7 anni, nella loro casa di Maiduguri
La foto è del 21 maggio 2014 (Reuters)

 
 

Chibok, Stato di Borno, Nigeria. Forse queste poche parole faranno suonare un campanello della nostra memoria, e forse no. È vero infatti che due anni fa, nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014, la notizia che la milizia islamista Boko Haram aveva rapito 276 ragazze di una scuola locale fece il giro del mondo e scatenò una campagna internazionale di solidarietà (su Twitter sotto l’insegna #bringbackourgirls) cui aderirono anche Michelle Obama e il premio Nobel Malala Yousafzai. Solo una cinquantina delle ragazze rapite riuscirono poi a fuggire e furono liberate. Molte di loro per precipitare in un altro dramma: stuprate dai miliziani, diventate madri, spesso sono state ripudiate dalle loro stesse famiglie e sono finite ai margini della società.

I SEQUESTRATORI MANDANO LA PROVA CHE LE RAGAZZE SONO VIVE: IL VIDEO DELLA CNN

Ma il tempo, inutile negarlo, ha consumato anche una tragedia come questa. Oggi pochi ricordano che oltre 200 delle ragazze sequestrate sono scomparse nel nulla, forse tramutate in schiave del sesso o addestrate al combattimento. O forse semplicemente perse nella massa indistinta di ragazze nigeriane, più di 2mila secondo Amnesty International, che hanno subito la stessa sorte, o in quella ancor più vasta dei civili, più di 30mila, uccisi in questi anni dai jihadisti.
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La Nigeria è oggi, insieme con la Siria, il fronte più aspro della battaglia contro il terrorismo islamista. Per quanto lontanissime, le due guerre in certi tratti si somigliano. Chiedono l’intervento di veri eserciti, che infatti negli ultimi tempi sono riusciti a ridurre lo spazio di manovra sia di Boko Haram sia del Daesh. Rivelano margini di crudeltà mai toccati prima. Il Daesh, il cosiddetto Stato islamico, con le sue esecuzioni di massa, con lo stragismo ostentato e anche esportato nel tentativo di ottenere il massimo effetto destabilizzante. Boko Haram con i bambini e ragazzi costretti a diventare bombe umane, immolati senza pietà in base a un folle progetto stragista. L’Unicef ha appena comunicato cifre agghiaccianti: nel 2015 ben 44 bambini sono stati mandati a farsi esplodere (nel 2014 erano stati 4) in decine di attentati che hanno colpito anche Camerun (39), Ciad (16) e Niger (7), oltre agli 89 messi a segno in Nigeria. Il più giovane di loro aveva otto anni.
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È la realtà amara della “guerra al terrore” che con molta enfasi fu lanciata nel 2001 dopo le Torri Gemelle di New York e gli altri attentati negli Usa. Da allora, se vogliamo tracciare un sommario bilancio, il numero degli attentati, quello dei kamikaze e quello delle vittime sono sempre aumentati. E crescente è pure il numero dei Paesi coinvolti. Dobbiamo dichiararci sconfitti? No, perché non lo siamo. Il terrorismo islamista incide cicatrici profonde ma non arriva neanche vicino a batterci.

obbiamo invece mettere a frutto le lezioni che via via andiamo così drammaticamente imparando. La faccia più recente del terrorismo islamista, in Siria come in Nigeria, in Somalia e in zone vaste dell’Africa, impone la costruzione di un argine di cultura e fede, ma anche – ed efficacemente – di polizia e militare. Ci impone di reagire con saggezza e forza. Ma questo stesso jihadismo, per i luoghi in cui si manifesta e per come si riproduce, ci dice anche che le armi in certe situazioni possono essere una diga contro mali peggiori, ma non sono mai la soluzione.obbiamo invece mettere a frutto le lezioni che via via andiamo così drammaticamente imparando. La faccia più recente del terrorismo islamista, in Siria come in Nigeria, in Somalia e in zone vaste dell’Africa, impone la costruzione di un argine di cultura e fede, ma anche – ed efficacemente – di polizia e militare. Ci impone di reagire con saggezza e forza. Ma questo stesso jihadismo, per i luoghi in cui si manifesta e per come si riproduce, ci dice anche che le armi in certe situazioni possono essere una diga contro mali peggiori, ma non sono mai la soluzione.

Il Daesh è nato e si è appoggiato sui disastri della mancata ricostruzione dell’Iraq e sull’inefficiente settarismo del governo sciita di Nur al-Maliki, che si è presentato alle tribù sunnite come un regime di occupazione. Gli shabaab in Somalia sono cresciuti in pari misura sulla disgregazione dello Stato unitario e sulle continue emergenze delle siccità e delle carestie. In Nigeria, Paese da 180 milioni di abitanti con 250 differenti gruppi etnici e 500 lingue diverse, e una popolazione quasi equamente divisa tra cristiani e musulmani, il distacco tra il Sud ricco di risorse petrolifere e più sviluppato e il Nord più arretrato a storicamente trascurato dal potere politico ha fatto da propulsore alle pretese di Stato islamico incarnate da Boko Haram.

Questo non vuol dire, ovviamente, che bastino dei bei progetti di sviluppo sociale per far sparire i terroristi, il jihadismo e il pericolo che essi incarnano. Ma sarebbe illusorio anche pensare il contrario, e cioè che bastino più forza e più armi per farcela. Non a caso dopo quindici anni di guerra al terrore siamo ancora in trincea, pur avendo più forza e più armi di qualunque gruppo terroristico. Dobbiamo proteggere e proteggerci, questo è certo, ma anche usare di più e meglio la leva della lotta contro la povertà e l’ingiustizia e credere nella carta dell’educazione. Quella per la quale le ragazze di Chibok sono state rapite e violentate. È complicato. Ma guai a pensare che sia impossibile. Guai dimenticare la verità e le persone. Allora sì che avremmo perso la battaglia.

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Il testo originale e completo si trova su:

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/ragazze-rapite-boko-haram-dimenticare-non-si-puo.aspx

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