ROMA/TERRORISMO – ( 30 Maggio 2016 )

“Roma, obiettivo estremo perché centro della cristianità”

di Stefano Magni

30-05-2016
 
 
Marco Bertolini in Afghanistan

Caos in Libia, guerre civili, flussi migratori e Stato Islamico. Il Mediterraneo, di cui il nostro paese è il centro geografico e politico, è tornato ad essere una zona caldissima (politicamente parlando) da almeno cinque anni. Il dibattito e il rincorrersi di dichiarazioni su un possibile intervento italiano in Libia, l’invio di forze in Iraq, il peggioramento della crisi migratoria e la continua minaccia jihadista, impongono un punto della situazione, altrimenti rischieremmo di perderci nel mare magnum delle informazioni. La Nuova Bussola Quotidiana ha incontrato il generale Marco Bertolini, comandante del Comando Operativo di vertice Interforze. Paracadutista, classe 1953, è stato Capo di Stato Maggiore del Comando Isaf (a guida Nato) in Afghanistan e, nel corso dell’ultimo trentennio ha partecipato, da ufficiale, alle missioni in Libano, Somalia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo.

La Libia torna ad essere al centro dell’attenzione. La guerra civile che si sta combattendo nel paese mediterraneo costituisce una minaccia diretta alla nostra sicurezza nazionale?

La Libia è un problema che ci riguarda da vicino e non possiamo illuderci di poterne delegare la soluzione esclusivamente ad altri. A poche centinaia di chilometri dalle nostre coste, infatti, c’è qualcosa di più di una semplice drole de guerre impiantata sul vuoto politico e istituzionale provocato dalla rimozione cruenta di Gheddafi, nel 2011. Inoltre, la comparsa di milizie che esibiscono i simboli di Daesh, fa balenare la minaccia del Califfato a brevissima distanza da casa nostra. Da quel paese fuori controllo, con particolare riferimento alla costa della Tripolitania, fuoriesce un flusso migratorio imponente che si presta ad essere utilizzato come arma nei confronti della nostra economia, del nostro “stile di vita” come spesso si dice, ma anche come mezzo di infiltrazione di elementi ostili che si possono facilmente confondere nelle masse che cercano rifugio o semplicemente fortuna in Europa. Dalla Libia, inoltre, arriva in Italia un rivolo importante del flusso energetico con il quale alimentiamo il nostro residuo benessere. Non c’è quindi dubbio che il rapporto tra Italia e Libia è di particolare rilevanza, per cui la stabilità di quel paese rappresenta un nostro interesse strategico irrinunciabile, per gli impatti che questa situazione sta avendo in tutto il bacino Mediterraneo nel suo complesso. E nel Mediterraneo l’Italia non è un dettaglio, vista la sua posizione geografica della quale per ora subiamo passivamente solo gli effetti negativi, tra cui l’estrema facilità di raggiungere le nostre coste dalla sponda settentrionale dell’Africa, entrando nel nostro territorio attraverso quella porta non sigillabile rappresentata da oltre 7000 km di costa. Al contrario, alle nostre spalle abbiamo soglie facilmente controllabili da nord come i passi alpini spesso trasformati in barriere insormontabili per i migranti in movimento da sud. Questo dato di fatto, unito alla pretesa europea di realizzare da noi hot spot nei quali restringerli in attesa di decidere chi se li prenderà, denuncia il tentativo di limitare i danni al resto del continente confinandoli al nostro territorio. La famosa e fumosissima solidarietà europea affonda così di fronte al camuffamento, con un incomprensibile e gradevole termine inglese, di quelli che fino a pochi anni fa sarebbero stati definiti semplicemente campi profughi, o peggio. Ma la nostra posizione geografica ci potrebbe assicurare anche il grande vantaggio di un impatto più incisivo sul nord Africa, se solo avessimo una strategia meno reattiva e più ambiziosa su quel continente, ovviamente con il pieno accordo delle leadership locali. Ma la strategia è un piatto difficile da digerire: consiste infatti nel pensare al futuro in termini di generazioni, sulla base dell’analisi del passato. E per fare questo ci vuole anche cultura, nonché l’umiltà di capire che non tutto è riducibile al nostro presente.

Le nostre forze armate sono presenti anche in territorio iracheno. Benché sia un’area lontana dalle nostre frontiere, anche il conflitto iracheno riguarda la nostra sicurezza e in che modo rientra nei nostri interessi nazionali? 

Non direi che l’Iraq sia lontano dalle nostre frontiere. Si tratta di un paese cerniera tra la nostra regione mediterranea, alla quale appartiene la Siria, e l’area del Golfo persico, importante non solo per le risorse energetiche di cui dispone ma anche perché rappresenta la porta di collegamento con l’Asia, l’Oceano Indiano e attraverso questo il Pacifico, nel quale navigano alcune delle economie più rampanti del prossimo futuro. E’ un paese molto importante, quindi, dal quale si può influenzare direttamente tutto quello che avviene nel nostro bacino, un pentolone da anni in una costante ebollizione che pare nessuno abbia l’interesse o l’intenzione di ridurre. Anzi. In questo pentolone noi siamo i primi che finiranno lessati, basta guardare una carta geografica per capirne le ragioni, se non si farà qualcosa, per cui credo ovvia la nostra presenza in quell’area. Si tratta, insomma, di ridurre le tensioni presenti da molti decenni nel Vicino Oriente e che sono alla base, se non del problema specifico, dell’incapacità di trovare un approccio comune a tutte le realtà nazionali che vi insistono. Purtroppo, tale approccio comune non c’è e molti interlocutori sembrano più preoccupati di impedire ad altri concorrenti di avere “troppo” successo contro l’ISIS, con i vantaggi politico-diplomatici e strategici che ne deriverebbero, che di fare fronte comune per rimuovere quella minaccia.

Propaganda dell'Isis sulla conquista di Roma

Lo Stato Islamico, nella sua propaganda, definisce a più riprese l’Italia (e in particolare Roma) come terra di conquista… 

L’Italia, e Roma soprattutto, hanno un valore simbolico elevatissimo, unico. E’ una realtà fastidiosa per un certo culturame nostrano, frustrato dalla nostra natura stessa e, conseguentemente, alla spasmodica e costante ricerca di ogni mezzo per cambiarla; ma è un fatto che Roma sia il centro della cristianità e l’Italia rappresenti ancora il paese cattolico per antonomasia, almeno per l’immaginario collettivo. Ovvio che in questo clima di scontro di civiltà, a mio parere “spintaneo”, che vedrebbe cristianesimo e islam l’un contro l’altro armati per costruzione, negando l’esistenza di significativi punti di contatto, non possiamo illuderci di avere un impatto neutro su quello che sta succedendo. Ritengo che questo scontro sia in una fase veramente inspiegabile in quanto i mondi investiti sulle due religioni hanno sempre trovato il modo di coesistere, pur in presenza di contrasti, di brutalità e di guerre nell’arco dei secoli. Basta vedere il rapporto tra le comunità cristiane e le realtà musulmane in Siria, come anche in Giordania, in Egitto e in Libano. A Gerusalemme stessa, tra cristiani, in tutte le loro declinazioni, e musulmani non sussistono tensioni reali: anzi, la Via Dolorosa, percorsa giornalmente da moltissimi pellegrini cristiani, si sviluppa tranquillamente nel quartiere musulmano da sempre. E dai tempi del Saladino è una famiglia musulmana a tenere le chiavi del Santo Sepolcro, senza problemi per i cristiani; anzi. Ma quello che è accaduto con le guerre del dopo 11 settembre, tra le quali farei ricadere anche le “primavere arabe” delle quali ci stiamo gustando i bei risultati, è qualcosa di diverso. E’ uno scontro che non ha nulla in comune con quelli a cui noi cristiani e musulmani ci eravamo abituati nei secoli, nei quali si raggiungeva con una ragionevole facilità un compromesso finale, di solito di carattere commerciale. Ora, invece, sembrerebbe che si sia imposta per la prima volta la logica di una lotta senza quartiere, che non può trovare una soluzione diversa dalla completa debellatio avversaria. Non c’è dubbio che tale accanimento non ha nulla a che fare con la prassi di tutti gli ultimi 13 secoli, credo per interessi che né noi europei mediterranei né gli arabi siamo in grado di controllare. E forse nemmeno di percepire. C’è, al proposito, una riflessione che ritengo opportuna: nonostante il citato valore simbolico di Roma, dall’inizio delle guerre del post-11 settembre l’Italia non è stata ancora colpita, al contrario di Spagna, Francia, Belgio e Gran Bretagna. Eppure, non dovremmo rappresentare un obiettivo eccessivamente difficile per chi non si limita a voler rischiare la propria vita ma addirittura mette in conto di perderla sicuramente al momento dell’attacco. Come mai questa situazione? Veramente il nostro apparato investigativo è così efficace da riuscire dove non riescono gli altri Paesi menzionati? Certamente, l’efficacia delle nostre Forze dell’Ordine gioca un importante ruolo ed è fuori discussione, ma forse lo stesso valore simbolico a cui facevo cenno rappresenta una specie di freno: Roma, insomma, sarebbe un obiettivo “estremo”, proprio per quello che rappresenta, quello che può certamente sancire la vittoria, ma che implica anche l’abbandono definitivo di scrupoli che evidentemente giocano ancora un loro ruolo. Speriamo che duri. Ciò detto, bisogna anche osservare che Roma ha sempre avuto un elevato valore simbolico a prescindere dall’attuale rapporto con l’islam. Penso, ad esempio, a quando sulla scorta delle pulsioni unitarie del Risorgimento italiano, c’è stato chi in essa ha voluto colpire un cattolicesimo “reazionario” che vedeva nel modernismo di stampo calvinista e protestante in generale un’eresia da combattere. Tale tentativo di “normalizzare” il nostro paese – colpevole, tra gli altri, del “gap culturale” spocchiosamente ed apertis verbis denuciato da quelli che in queste settimane lamentano la necessità di rimandare, dicono loro purtroppo, ulteriori provvedimenti di rieducazione come l’introduzione della stepchild adoption a favore delle coppie omosessuali – continua anche ai nostri giorni. Faccio appunto riferimento all’offensiva di quell’esasperato laicismo che, guarda caso, accomuna cattolicesimo “classico” e islamismo quali realtà da riformare profondamente a causa della loro pretesa di non escludere i dettati della dottrina religiosa dalle regole della vita sociale. Lo scontro sui “valori non negoziabili” non è altro che questo, in fin dei conti, e si tratta certamente di un argomento difficile, vista anche la prudenza con la quale la Chiesa stessa li sta ora difendendo. E’, comunque, un fatto che una propaganda massiccia ed a senso unico è riuscita a trasformare comportamenti che fino a pochi anni fa avremmo tranquillamente definito abominevoli in modi di essere normali ed assolutamente leciti. Per chi si erge a portatore di questo nuovo mondo, riuscire a fare scontrare cattolicesimo ed islam rappresenta un successo epocale, che spiana la strada alla definitiva modernizzazione, con quello che ne consegue, del “mondo classico”. 

Il terrorismo jihadista viene spesso paragonato a un fenomeno di macro-criminalità, dunque contrastabile con gli strumenti classici della lotta alla criminalità: polizia, magistratura ordinaria e al massimo intelligence. Ma questo parallelo con la criminalità coglie la dimensione reale del pericolo e la sua vera natura?

Non credo che la minaccia jihadista, neppure quella del Califfato, rappresenti, con riferimento al nostro territorio, una minaccia militare vera e propria. Nonostante i proclami di Daesh, infatti, lo stesso non è in grado di prodursi in un vero tentativo di “conquista” del nostro paese, non avendo ancora la disponibilità di un proprio territorio da utilizzare quale incontrastata base di partenza e dal quale alimentare sforzi militari “fuori area”, cioè a casa nostra, particolarmente complessi. É vero, comunque, che indirettamente anche la semplice minaccia jihadista unita ad una migrazione incontrollata dal nord Africa incide sulla tenuta europea e, quel che è (molto) peggio, su quella nazionale. La rinascita di pulsioni separatiste, come quelle che, quasi per una sciocca rivalsa nei confronti del leghismo dei primi anni stanno comparendo nel sud Italia, infatti, potrebbero portare ad una parcellizzazione del paese rendendolo così ancor più vulnerabile. L’esempio dell’ex Jugoslavia, ridotta ad un mosaico di staterelli in reciproco conflitto tra di loro, pressoché alla mercé della migrazione mediorientale dalla Turchia, ci dovrebbe ammonire autorevolmente da molto vicino, al proposito. Se si è piccoli, in quest’epoca di lupi, si può solo diventare bocconi per i più grossi. Diverso è il caso della minaccia terroristica che rappresenta invece un pericolo incombente, reso ancor maggiore dalla presenza di centinaia di migliaia di profughi e clandestini senza controllo affluiti negli ultimi anni nel nostro paese tra cui si possono nascondere molti elementi ostili, capaci – se così diretti – di colpirci. In quel caso, ci si possono attendere azioni complesse, diverse da quelle del terrorismo al quale ci eravamo abituati negli “anni di piombo” e che fu relativamente facile rimuovere con mezzi quasi ordinari. Non si tratterebbe, in sostanza, di condurre semplici azioni di polizia contro un numero limitato di “cellule” terroristiche, ma di riassumere il controllo di ampi spazi di territorio, con operazioni di più ampio respiro, mantenendo una presenza “visibile” dello Stato in tutto il territorio. Le Forze di Polizia, l’azione della Magistratura e la “mobilitazione delle coscienze” che in quegli anni, è opinione diffusa abbiano sconfitto le Brigate Rosse, insomma, potrebbero non essere sufficienti e sarebbe necessario il ricorso alle Forze Armate anche in Patria. A chi osservasse che tale intervento c’è già ora, con l’Operazione “Strade Sicure”, farei notare che in questo caso non sono le Forze Armate ad operare, ma le Forze dell’Ordine alle quali l’Esercito si limita a fornire “mano d’opera” da posizionare nelle località decise dalla Polizia e sotto gli ordini della Polizia, soprattutto a scopo di deterrenza. Un impiego più incisivo delle Forze Armate, richiederebbe invece la necessità di affidare loro la pianificazione e la condotta di azioni più complesse, pur sempre nei limiti imposti dalla legge. Un intervento del genere, però, avrebbe un impatto mediatico tale da renderlo difficilmente digeribile da parte delle nostre opinioni pubbliche, almeno fino a quando non si sarà raggiunto un livello di preoccupazione maggiore. Infine, un’osservazione sull’intelligence: si tratta di un prodotto impalpabile e politicamente digeribilissimo anche per la nostra schizzinosissima opinione pubblica, in quanto prediligerebbe la semplice raccolta e analisi informativa rispetto all’azione diretta. Ma senza quest’ultima, si tratterebbe di una funzione sterile, inutile. Insomma, il retorico riferimento al dovere dell’intelligence col quale ci si vorrebbe ricavare un ruolo nella lotta al terrorismo internazionale senza sporcarsi le mani con l’impegno diretto, militare, è inutile.

“Per combattere l’Isis la soluzione militare non è sufficiente” è una frase molto ricorrente nelle dichiarazioni politiche a tutti i livelli (Onu, Ue e governi nazionali impegnati nella Coalizione contro l’Isis). Ma quale può essere il ruolo militare per la lotta ai jihadisti? E cosa, invece, l’esercito non può fare?

E’ una minaccia complessa che non può prescindere da una risposta complessa, nel solco di quel “comprehensive approach” di cui la NATO e l’UE si sono dotate da anni. Insomma, non si può sperare di risolvere con una semplice prova muscolare uno scontro che ha ragioni profonde che non si riducono alla presenza di un gruppo più o meno cospicuo di irriducibili nemici della nostra civiltà da portare alla ragione. Giocano un ruolo in tale scontro anche frustrazioni di vecchissima data, come l’irrisolta questione palestinese, le conseguenze della decolonizzazione acefala e selvaggia del Medio Oriente e l’incapacità del mondo arabo di reggere il confronto con un occidente ipertecnologico e consumista che tenta di imitare, spesso nei suoi aspetti deteriori, senza speranza però di raggiungerlo. Ovvio che una tale situazione richieda molto di più di qualche risposta militare o, al contrario, di qualche intervento assistenziale di fronte alle frequenti crisi umanitarie, come se con un po’ di elemosina d’alto bordo ci si potesse trarre d’impaccio. E’ necessario invece affrontare alla radice i problemi di quella realtà, considerandola con più attenzione e rispetto. Questo lo dovremmo fare soprattutto noi italiani, che a quelle questioni siamo molto prossimi soprattutto da un punto di vista geografico. Ma mi chiedo, ad esempio, come potremo mai capire quello che avviene a poche centinaia di chilometri dall’altra parte del Mediterraneo se non siamo neppure in grado di comunicare con loro, anche a causa di una quasi assoluta ignoranza della loro lingua, benché si tratti di fatto di una “lingua franca” parlata dal Medio Oriente al Marocco da tutti i nostri vicini mediterranei. Per di più, ostentiamo un disprezzo per il loro stile di vita (stile così simile a quello dei nostri nonni) fino al punto di fare una bandiera della rilassatezza dei nostri costumi attuali, come se la libertà di cui ci ammantiamo possa essere misurata dai centimetri quadrati di pelle nuda che ostentiamo a passeggio per le nostre città. E’ chiaro che così facendo non arriveremo da nessuna parte ed i toni dello scontro non potranno che acuirsi. In definitiva, le Forze Armate giocano sicuramente un ruolo importante, purché affiancate da un’azione di altro genere (diplomatica, politica, economica e culturale) da parte di tutto il paese nel suo complesso. Sotto il profilo umanitario, che a parole ci preme così tanto, si tratta di passare dalla logica dell’elemosina a quella dell’investimento; ma quanti imprenditori sono disposti a impegnarsi in aree così pericolose senza un forte appoggio dello Stato? Si tratta, insomma, di esercitare una politica estera di cui le Forze Armate sono uno strumento di straordinaria efficacia come viene confermato tutti i giorni nei paesi nei quali operano nostri contingenti, in grado di “alzare palle” che altri però dovrebbero “schiacciare”. Al contrario, per ragioni soprattutto di carattere politico, allo strumento militare italiano nel nostro paese è da sempre riservato solo un ruolo di risposta a improbabili minacce al territorio nazionale, relativizzandone volutamente e, ritengo, per ragioni esclusivamente ideologiche le possibilità di sfruttamento. Infine, credo che anche la politica estera nel suo complesso meriti una riflessione. L’Italia, almeno nel secondo dopoguerra, l’ha infatti delegata in larga misura alla cosiddetta comunità internazionale, con particolare riferimento alla NATO prima ed all’Unione Europea poi, forse nell’ingenua speranza che tali organizzazioni si facciano carico di difendere i nostri interessi. Ma è una speranza che è quasi sempre andata delusa, come dimostrato da una consolidata esperienza ultradecennale.

Il testo originale e completo si trova su:

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-roma-obiettivo-estremo-perche-centro-della-cristianita-16332.htm

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