SIRIA – ( 6 Maggio )

IMPROVVISA ACCELERAZIONE

La crisi siriana chiama l’Occidente

Il rischio dell’allargamento del conflitto a Libano e Israele (già in campo con i suoi bombardamenti mirati) potrebbe preludere a un intervento massiccio e duraturo delle truppe di terra dei Paesi occidentali, in funzione di “peacekeeping”
Stefano Costalli

 
Il duplice attacco condotto da Israele nei pressi di Damasco apre un nuovo capitolo della complicata guerra civile siriana, prefigurando una sua possibile internazionalizzazione. Finora sia il regime che le varie fazioni ribelli hanno combattuto un conflitto rimasto sostanzialmente entro i confini dello stato conteso. Soltanto il territorio libanese, sempre fortemente influenzato dalla politica siriana, era stato parzialmente coinvolto, ma per il resto erano stati soprattutto i molti profughi a varcare i confini siriani cercando riparo dalla violenza. Adesso però qualcosa sta cambiando. L’Iran fornisce armi ad Hezbollah, il partito-milizia sciita libanese, affinché questo sostenga il regime di Assad contro gli insorti. Il Presidente e l’élite al potere in Siria appartengono infatti a una setta sciita e sono legati a doppio filo sia all’Iran che a Hezbollah, in funzione anti-israeliana. Finora Hezbollah non si è impegnato a fondo nel sostegno ad Assad, anche perché se ciò avvenisse non è difficile immaginare una contromossa dei sunniti libanesi che rischierebbe di destabilizzare il già precario equilibrio del Paese dei cedri. Il governo israeliano teme un rafforzamento militare di Hezbollah, che diede già del filo da torcere al proprio esercito nel 2006. Soprattutto, Israele non vuole che gli sciiti libanesi si dotino di missili terra-terra iraniani con i quali potrebbero minacciare seriamente tutto il nord del Paese, e infatti proprio questi missili costituivano l’obiettivo degli attacchi in territorio siriano.
Oltre all’obiettivo immediato, però, con questi attacchi Israele ha lanciato anche due messaggi importanti. Uno all’Iran, per chiarire che non tollererà mosse di Teheran che possano mettere in pericolo la propria sicurezza e per far capire che un eventuale bombardamento delle installazioni nucleari iraniane potrebbe essere legato alla politica di Teheran in Siria. Il secondo messaggio invece è per gli Stati Uniti, che finora si sono tenuti fuori dal conflitto siriano e hanno recentemente ribadito di non volervi inviare soldati. Israele sta mettendo pressione alla presidenza Obama affinché faccia di più per proteggere il proprio alleato nella regione, ma esperti autorevoli negli Stati Uniti sono scettici circa l’esistenza di un effettivo interesse americano ad intervenire, fosse anche con l’uso di missili e dell’aviazione. D’altra parte, anche per Israele il quadro non è così chiaro, poiché se è vero che il governo di Netanyahu non vuole un rafforzamento di Hezbollah e che Assad è un nemico storico dello stato ebraico, è anche vero che le fazioni sunnite jihadiste dell’opposizione non fanno sperare in scenari migliori.
Da molte parti si invoca un intervento della comunità internazionale che ponga fine agli scontri e alle sofferenze dei civili. Finora ogni iniziativa in questa direzione è stata impedita dal veto dichiarato di Cina e Russia al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Anche se il veto venisse meno, però, la situazione è talmente complessa e inserita in un contesto regionale così delicato che un intervento sarebbe molto difficoltoso. Le posizioni delle parti che si combattono, infatti, non fanno prefigurare nessuna volontà di accordarsi e l’opposizione è molto frammentata. In queste condizioni, porre velocemente fine al conflitto appare difficile. Si potrebbe intervenire in modo deciso con missili e aviazione al fianco di una delle due parti. Questo è di solito il modo più efficace, ma ciò implicherebbe schierare la comunità internazionale apertamente. Se poi si decidesse di schierarsi con i ribelli, le forze armate di Assad opporrebbero certamente più resistenza di quelle libiche, anche se l’esito finale sarebbe certo. L’altra via sarebbe un intervento di tipo “peacekeeping”, neutrale rispetto ai contendenti. Questo però implicherebbe un grosso impegno delle truppe di terra, che soprattutto a causa della scarsa centralizzazione degli insorti dovrebbero presidiare in forze ogni angolo del territorio siriano. Se anche si andasse verso una divisione del Paese, che per ora le parti non vogliono, la missione dovrebbe rimanere in Siria per lunghi anni e i governi occidentali al momento non sembrano pronti ad accettare un simile carico. Se però il conflitto dovesse davvero allargarsi a Libano e Israele, potrebbero non esserci alternative.
 
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