«La priorità che ci aspetta è quella della sicurezza», diceva uno. «Cè ancora molta violenza nella nostra società: bisogna passare da una cultura della guerra alla pace», rispondeva laltro. Era il marzo del 2011 quando a Juba incontrammo Salva Kiir e Riek Machar, presidente il primo, vicepresidente il secondo del nascente Stato del Sud Sudan, la nazione più giovane al mondo.
Cerano voluti due decenni di guerra e due milioni di morti perché Juba potesse acquisire grazie a un referendum la piena indipendenza dallodiato regime di Khartum. Il Sud Sudan ora era libero, anche se per le strade del Paese la povertà diffusa, le dispute etniche, le questioni irrisolte sul petrolio ponevano seri dubbi sulle possibilità di sviluppo. Due anni e mezzo dopo, Kiir e Machar sono ai ferri corti, tanto da essere gli antagonisti di una nuova crisi che negli ultimi tre giorni ha provocato oltre 500 vittime, 800 feriti e 20mila sfollati non solo a Juba ma anche in altre regioni, in particolare nello Stato orientale di Jonglei. Il tutto mentre da Khartum il vecchio nemico Omar el-Bashir osserva con interesse levolversi della situazione, e cè anche chi lo reputa capace, insieme allalleato cinese, di macchinare dietro le quinte per far esplodere del tutto lo scontro, pronto ad approfittarne nelle zone petrolifere di confine.
Capire dove risieda la verità e quali siano le reali ragioni della crisi in atto a Juba è in queste ore impresa difficile. A queste latitudini questioni economiche, etniche e di potere si intersecano più che altrove, così che diventa arduo individuare colpe e responsabilità. Lunedì Kiir ha accusato Machar esautorato a luglio dalla sua carica di vicepresidente di aver organizzato un colpo di Stato. La notte prima, avevano detto le autorità, cera stata una rivolta nella caserma di Jebel a Juba, rivolta guidata da unità della guardia presidenziale rimaste fedeli a Machar. Gli scontri si erano poi estesi a gran parte della città. «Gli assalitori sono fuggiti, e le nostre forze li stanno inseguendo», aveva detto Kiir. Tra martedì e ieri, però, la situazione è degenerata. I combattimenti tra ribelli e truppe lealiste sono infatti proseguiti estendendosi anche fino a Bor, capitale dello Stato di Jonglei. Qui gli scontri sono avvenuti nei pressi di due caserme, ora controllate dagli uomini di Machar. Il rischio che si arrivi a una vera e propria guerra civile è alimentato anche dalle divisioni etniche lungo cui corre il conflitto, vista la rivalità tra i dinka di Kiir e i nuer di Machar (le faide interetniche hanno provocato negli ultimi anni migliaia di vittime). Ma alla base potrebbero esserci, prima di tutto, nodi economici di potere. Troppo facile, insomma, ridurre lo scontro a questioni etniche.
Machar è intervenuto ieri sulla crisi con unintervista al Sudan Tribune sostenendo di non aver mai organizzato un golpe. «Quello che è successo a Juba è stato un fraintendimento tra guardie presidenziali. Non ne sono coinvolto, né sono a conoscenza di alcun tentativo di colpo di Stato», ha detto lex vicepresidente ora in fuga. In fuga perché nel frattempo Kiir ha ordinato una serie di arresti: in galera sono finiti una decina di membri del governo attuale e di quello precedente, proprio in relazione al loro coinvolgimento nel presunto golpe. Secondo Machar, Kiir intende solo formulare false accuse nei suoi confronti per piegare il processo democratico: «Non è stato a lungo un presidente legittimo». Insomma, Kiir userebbe il presunto golpe per sbarazzarsi dei suoi nemici. Ieri, però, lo stesso Kiir, forse su pressioni dellalleato americano, è sembrato tendere, seppur non in modo convinto, la mano al suo rivale: «Siederò con lui ha detto e ci parlerò. Ma non so quali risultati ci saranno». «Purtroppo in questo scenario non sembra che il bene della nazione sia collocato al primo posto», ha osservato una fonte della Chiesa locale allagenzia Fides. Nel frattempo 20mila persone hanno cercato rifugio in due complessi dellOnu solo a Juba, e centinaia di civili hanno fatto altrettanto nello Stato di Jonglei. La situazione è aggravata dalla penuria di medicinali e di scorte di sangue, con gli ospedali che non sono in grado di fare fronte allenorme carico di lavoro. Washington e Londra hanno evacuato parte del personale diplomatico e lItalia sta facendo altrettanto con i nostri connazionali, soprattutto operatori umanitari. Nel frattempo il Consiglio di sicurezza dellOnu ha esortato a «cessare immediatamente le ostilità». Ma la soluzione della crisi non sembra ancora a portata di mano.
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