TUNISIA – ( 19 Dicembre )

Cristiani di Tunisi: un invito a tornare all’essenza della fede

Intervista Mons. Ilario Antoniazzi, arcivescovo di Tunisi, di Maria Laura Conte

Marialaura Conte | mercoledì 18 dicembre 2013
Tunisi – Alla vigilia del suo primo Natale a Tunisi, Mons. Ilario Antoniazzi, entrato come nuovo arcivescovo la scorsa primavera, misura tutta la differenza tra come si vive l’Avvento qui rispetto a Rama in Galilea, dove ha trascorso vent’anni.
«Il mio primo Natale a Tunisi mi sta insegnando molto. L’assenza di luminarie e di segni evidenti dei preparativi della festa mi colpisce in modo particolare, perché nella mia vecchia parrocchia c’era quasi una gara a chi esponeva le luci più belle e vistose. Ma proprio questa sorta di nostalgia mi costringe a un ritorno all’essenziale. Mi invita a sbarazzarmi di tutto ciò che è secondario, per lasciarmi condurre al significato essenziale del Natale: Gesù che viene. Quel Gesù che proprio là dove non mancano luminarie e decori di ogni genere, come nel ricco Occidente, quasi non si nomina più. Ecco: a Tunisi siamo aiutati a riandare all’essenziale».

In questi primi mesi cosa l’ha colpita di più della vita della comunità cristiana locale?

Visito continuamente le parrocchie e le comunità più piccole presenti in tutto il territorio e posso constatare la ricchezza e la fatica della vita quotidiana. Non è tanto il fatto che il 99 % dei cristiani siano stranieri che rende la vicenda complessa, quanto la loro provvisorietà. Restano per un periodo, poi partono. Quindi spesso si avvia un cammino, che è destinato a fermarsi dopo un po’, per poi ripartire. D’altra parte è anche una grande ricchezza: ascoltare un coro di venti persone di tredici nazionalità diverse è un’espressione vivace dell’universalità della Chiesa, che non guarda al colore della pelle né al passaporto. Ma quando ti accorgi che qualcuno è partito quasi senza avvisare, cogli tutto il senso della provvisorietà. È una provocazione continua a rimettersi in gioco ogni volta. Contando anche sulle presenze costanti che sono soprattutto quelle di alcune mogli europee, cristiane, di tunisini. Quando il marito lascia loro una certa libertà di frequentare la parrocchia, sono un grande dono per la Chiesa: spesso sono catechiste o aiutano la vita delle nostre comunità in vario modo. Spesso hanno una spina nel cuore per il fatto che si trovano ad educare alla fede e ad accompagnare ai sacramenti i figli altrui, mentre non possono farlo con i propri figli, che per volere del padre devono essere educati musulmani.

Come definirebbe dunque la Chiesa tunisina?

Anche definirla è difficile: perché è in Africa, ma non condivide le stesse problematiche delle Chiese africane; parla arabo, ma è lontanissima dall’esperienza mediorientale. Ha un profilo singolare, che chiede di essere conosciuto e amato, ricco di complessità dalle quali anche i cristiani della vecchia Europa possono imparare. In primis il costante invito alla scoperta dell’essenza della fede.

Come guarda alla situazione sociale e politica del Paese?

Percepiamo la grande tensione che segna il Paese. Più che per la situazione attuale, appena uscita da una certa stagnazione, temiamo per quello che potrebbe accadere. Soprattutto che si crei un vuoto politico, che solo Dio sa chi potrà riempire. Ci sono stati arresti di gruppi salafiti, sono state trovate delle armi, siamo come in una pentola bollente, che potrebbe scoppiare. Gruppi di salafiti sono andati a combattere in Siria e quando tornano importano l’esperienza della guerriglia, sono pronti a tutto, fino a farsi martiri per la guerra santa nel nome di Dio. Ciò che mi tranquillizza è che il popolo tunisino ama la pace, è un popolo colto, aperto. Ci sono state fatte varie garanzie e promesse dalle istituzioni statali, dallo stesso presidente, ma non è cambiato nulla dopo la rivoluzione. Resta vigente il Modus Vivendi che risale al 1964 e di fatto impedisce alla Chiesa di possedere alcunché. Se una congregazione di religiose, per esempio, per mancanza di vocazioni deve abbandonare una delle sue opere qui, non può per legge lasciarla alla diocesi, diviene un bene dello Stato. Da anni chiediamo che ci restituiscano alcune delle chiese confiscate dopo l’indipendenza, ma senza successo. Io spero che queste doglie del parto che vive il Paese possano portare a una vita nuova, senza una sofferenza troppo profonda per il suo popolo.

 
condividi su