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TURCHIA – (17 Ottobre 2018)

Turchia. I media turchi: ecco come è stato massacrato il reporter saudita


Eleonora Ardemagni mercoledì 17 ottobre 2018
Erdogan incontra il segretario di Stato Usa Pompeo di ritorno da Riad. L’appoggio americano al re e al principe ereditario MbS, che non si scrolla di dosso l’accusa di aver fatto uccidere Khashoggi
I media turchi: ecco come è stato massacrato il reporter saudita

Il giornalista saudita Jamal Khashoggi sarebbe stato torturato, decapitato e fatto a pezzi all’interno del consolato saudita di Istanbul. Lo riporta il quotidiano turco Yeni Safak che racconta di essere entrato in possesso di una registrazione degli ultimi momenti di vita dell’editorialista del Washington Post. Secondo il quotidiano, Khashoggi è stato torturato nel corso dell’interrogatorio, nel quale gli sarebbero state amputate le dita da parte di agenti sauditi. In seguito sarebbe stato decapitato. In uno degli audio, spiega il giornale, si sentirebbe il console saudita in Turchia, Mohammad al-Otaibi, che ieri ha fatto ritorno precipitoso a Riad, affermare: “Se vuoi vivere, stai zitto”. Da ultima, intanto, anche la direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, diserterà la “Davos del deserto”, la conferenza patrocinata dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per attrarre investimenti nel Paese. In una nota, l’Fmi rende noto che il “viaggio della direttrice precedentemente programmato nella regione del Medio Oriente è stato posticipato”. La sua defezione segue quella di diversi giganti di finanza e media, dopo la sospetta uccisione del giornalista Jamal Khashoggi 15 giorni fa nel consolato saudita a Istanbul.
E mentre gli investigatori turchi sono pronto a perquisire l’abitazione del console tornato in patria, all’aeroporto di Ankara il segretario di Stato Mike Pompeo e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si sono incontrati brevemente. Pompeo ha riferito dei colloqui avuti a Riad con re salman e con il principe ereditario. Erdogan a sua volta ha ottenuto assicurazioni dagli americani anche su altri scenari regionali. In particolare in Siria, dove gli Usa hanno confermato l’appoggio incondizionato alle azioni Erdogan contro i curdi al confine e il controllo della città strategica di Mambij. Una sorta di patto a tre, con Usa e Riad, che va ben oltre la vicenda del reporter, che è ormai un elemento di contorno rispetto al ridisegno degli equilibri geopolitici mediorientali. (Redazione Esteri)

Il ruolo di Mohammed bin Salman

La notizia è che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) è riuscito a mettere in imbarazzo persino Donald Trump, alleato finora acritico della monarchia di Riad. Nelle ore in cui il “caso Khashoggi” prende contorni più definiti e, forse, definitivi, è necessario domandarsi quali ripercussioni avrà la scomparsa del celebre giornalista saudita sugli equilibri di potere nel Regno. Perché un dato è certo: qualunque ricostruzione le autorità saudite sposino come versione «ufficiale», la leadership del 33enne erede al trono esce più che ammaccata dai fatti del consolato saudita di Istanbul, da cui Jamal Khashoggi non è più uscito dopo esservi entrato il 2 ottobre scorso. Proprio l’inaccettabile fine del giornalista, divenuto critico nei confronti di MbS dopo aver fatto parte, per decenni, dell’establishment precedente all’ascesa di re Salman e figlio, restituisce un messaggio: la leadership di Mohammed bin Salman si è molto indebolita, innanzitutto, per i suoi tanti strappi in politica interna e regionale, così tanto da sentirsi minacciata dagli articoli di un giornalista (seppur un insider dei giochi di potere sauditi). Insomma, l’atto di forza dei sauditi nei confronti di Khashoggi si è rivelato un terribile (in tutti i sensi) autogol, un segno di debolezza, a dispetto della hybris spesso mostrata da colui che dovrebbe diventare re. ù

Prima dei politici, si sono mossi gli investitori, con una raffica di cancellazioni dalla Future Investment Initiative, la conferenza di fine ottobre che dovrebbe riunire il gotha della finanza e dei media internazionali a sostegno della diversificazione economica “oltre il petrolio” dell’Arabia Saudita: è qui che Riad ha capito che la vicenda stava generando danni ai limiti del rimediabile. Infatti, quasi quattro anni di intervento militare saudita in Yemen (compreso l’embargo, le tante vittime civili e la carestia in atto), insieme agli arresti ed esecuzioni di attivisti in patria, non hanno sortito neppure la metà di ciò che la sparizione di Jamal Khashoggi sta smuovendo nei circuiti finanziari- mediatici-diplomatici di tutto il mondo. Ora più che mai, Riad non può fare a meno degli investimenti esteri: MbS ha puntato tutto, trono compreso, sul successo di “Vision 2030”, ma il percorso di diversificazione, già problematico, rischia di complicarsi. Riad ha ripristinato i tagli a stipendi e benefit del settore pubblico, il Pil si è contratto dello 0,7% nel 2017, la quotazione in Borsa del 5% di Saudi Aramco è stata rimandata, la fuga dei capitali ha raggiunto gli 80 miliardi di dollari nel 2017, “Neom” rimane un progetto affascinante ma vago (la costruzione partirà solo nel 2020). I dati certi non sono positivi: l’Iva al 5%, in vigore da gennaio, ha portato nelle casse di Riad introiti inferiori alle attese, così come le retate anti-corruzione che hanno spaventato gli investitori e spaccato la famiglia reale. Più di 300mila lavoratori stranieri hanno lasciato il Paese a causa delle politiche di “saudizzazione del lavoro”: ma i giovani sauditi, che spesso hanno livelli di istruzione superiori alle richieste del mercato interno, non occupano quei posti. L’Arabia Saudita, nella sua storia di monarchia assoluta, non è mai stata, però, il Paese di un «uomo solo al comando ».

La marginalizzazione dei religiosi

Le scelte politiche, graduali e mai improvvise come nell’era di MbS, sono sempre state il frutto di mediazioni e accordi interni alla famiglia reale, per preservare il delicato equilibrio fra gerarchie wahhabite, famiglie tribali influenti e principi senior. Esattamente il contrario di ciò che Mohammed bin Salman, con l’appoggio del padre, ha compiuto finora, marginalizzando i religiosi sunniti, arrestando noti businessmen e destituendo importanti figure reali (come lo zio). E se nel medio-lungo periodo, come il “caso Khashoggi” dimostra, la condotta divisiva e avventurista di MbS può diventare un handicap, invece che una risorsa, per l’intero Regno, non sorprenderebbe se il primo tentativo di arginarlo provenisse dalla stessa famiglia reale, già in fermento. Da una prospettiva geopolitica, la vicenda del giornalista scomparso è una brutta notizia anche per Trump, che non riesce a fare fronte comune in Medio Oriente contro l’Iran (con gli iraniani che invece possono assistere soddisfatti a come i sauditi sanno farsi del male da soli). Ed è una pessima notizia anche per i tanti “spin doctor” che dovranno convincere gli investitori, specie americani, che rimanere a Riad ha un prezzo che si può ancora pagare.

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