Intervista. Il presidente Assad: presto referendum in Siria. Gli errori della Ue

Il presidente siriano Assad al Bashar
La pietra bianca del palazzo presidenziale di Damasco, costruito nel 1910 quando qui dominavano i pasha ottomani, luccica nel sole del mattino. Ma non è una bella giornata: due kamikaze di Tahrir al-Sham, il movimento terroristico legato ad al-Qaeda, hanno appena colpito i pellegrini iracheni sciiti, la conta dei morti ha già superato i 40 e si riaffaccia lo spettro di una capitale di nuovo sotto scacco a dispetto dei controlli e dei check point. Eppure Bashar al-Assad, il giovane oftalmologo che dal 2000 è presidente della Siria, sembra del tutto a proprio agio. Elegante, rilassato, cordiale, risponde alle domande fissando l’interlocutore con gli occhi blu ereditati dalla madre. Anche protocollo e sicurezza sembrano poca cosa, se paragonati al fatto che Assad è oggi uno dei personaggi più noti a mondo e uno dei bersagli più ambiti.
Signor Presidente, ancora  morti a Damasco,  ancora guerra in Siria. E pesanti  come pietre le  parole di Benjamin  Netanyahu, primo ministro di Israele:  «Non ci sarà  mai un accordo di pace in Siria finché l’Iran non lascerà il Paese».  Sembra una situazione senza via d’uscita. 
Il problema  siriano ha molti sfumature  ed è reso ancor più complicato dalle   ingerenze esterne.  Attacchi terroristici  come quello contro i  pellegrini iracheni a Damasco  sono avvenuti negli ultimi anni su base  quotidiana,  in certe fasi quasi ogni ora. Finché ci saranno terroristi  in Siria ogni  abitante del Paese sarà in pericolo,  questo è certo.  La  domanda importante è: chi aiuta e sostiene i terroristi? Ed è una  domanda che vorrei fare ai politici europei,  che fin dall’inizio della  crisi in Siria  hanno preso una strada che ha portato  alla distruzione  del nostro Paese, alla diffusione del terrorismo in tutta la regione, al  succedersi di attentati in Europa e alla crisi dei rifugiati. L’Europa,   o per meglio dire l’Occidente perché  la guida è sempre stata degli  americani,  ha avuto finora l’unico ruolo di cooperare con gli obiettivi  dei terroristi.  Non ha sostenuto alcun processo politico. Ne parla, ma  senza intraprendere  alcuna concreta azione. Per quanto  riguarda  Israele, è semplice: aiuta in modo molto diretto i terroristi, sia  offrendo  sostegno sia lanciando attacchi contro il nostro esercito  lungo la linea di confine. L’Iran, al contrario, ci aiuta a combattere  il jihadismo e ci sostiene dal punto di vista politico in Medio Oriente   come presso la comunità internazionale.
E Donald Trump? 
Ha speso parole molto interessanti sulla necessità di combattere ed eliminare  l’Isis. Adesso aspettiamo anche i fatti.
Un  altro protagonista: la Russia. Qual è la natura dei rapporti tra Russia  e Siria?  Cooperazione o colonizzazione? Insomma: che fanno qui,  realmente, i russi? 
Guardiamo ai fatti: da quando abbiamo   chiesto ai russi di aiutarci e loro si sono schierati accanto  all’esercito siriano,  il Daesh ha cominciato a perdere  terreno. Prima,  finché sul terreno agiva  solo quella che viene chiamata Alleanza   occidentale contro il terrorismo, il Daesh si allargava. La presenza  russa  in Siria è stata dipinta a tinte fosche solo a partire dal  momento in cui qualcuno  si è reso conto dei successi che otteneva  sul  campo. E che la battaglia comune dell’esercito siriano e di quello   russo sia un successo è un fatto, non un’opinione. La riconquista di  Aleppo e Palmira e di molte altre aree lo dimostra.
E l’aspetto politico? Cooperazione o colonizzazione? 
Fin  dall’inizio della crisi, sei anni fa, ogni  iniziativa, prima politica e  poi anche  militare, è stata presa dal Cremlino  in consultazione e  accordo con il Governo siriano. Loro si comportano così. Hanno una  visione politica basata  su due principi: la piena sovranità della  Siria, stabilita nella Carta delle Nazioni  Unite come quella di ogni  altro Paese; e il rispetto di un’alleanza che è ormai vecchia più di  sessant’anni e non è mai vacillata.
Signor Presidente, questa guerra ha ormai  prodotto centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Secondo   le Nazioni Unite è lei il responsabile. E da molte parti le si chiede  di lasciare  il potere per rendere possibile un accordo di pace. Che  cosa risponde? Che cosa pensa di fare? 
In primo luogo, è il  popolo siriano che deve scegliere il proprio Presidente e decidere chi è  il colpevole di questa guerra e delle sue conseguenze. Certo non le  Nazioni Unite, che non hanno alcun vero ruolo. E sappiamo anche qual è  la causa: dal crollo dell’Urss, alcuni  Paesi del Consiglio di  Sicurezza, cioè Usa, Francia e Gran Bretagna, hanno  usato l’Onu per  affermare i propri interessi e rovesciare i Governi che non si  allineavano ad essi. Dovrei andarmene?  Per me conta  solo il parere dei   siriani. L’Onu e qualunque  altro politico  fuori dalla Siria  possono  dire ciò  che vogliono, non  me ne curo. Comunque,  quando si  parla  dei morti e dei  rifugiati, sarebbe  bene ricordare che  la  responsabilità di  una parte di quelle  tragedie ricade  sull’Europa.  Non direttamente   ma per il sostegno offerto ai terroristi fin dal  principio, definiti ‘moderati’ anche quando si capiva che quella  moderazione  era solo un’illusione. Non ci sono  miliziani moderati, in  Siria, sono tutti estremisti. E in ogni caso, quando hai un mitra in  mano, uccidi persone e distruggi beni, sei un terrorista. In Siria  come  in Italia come in ogni altro Paese. Non ci sono ‘killer moderati’ o  ‘terroristi moderati’. Noi, almeno, non ne conosciamo.
E i rifugiati? 
Non  tutti coloro che hanno lasciato la Siria lo hanno fatto a causa del  terrorismo  e delle distruzioni. Molti sono scappati per le difficoltà  ulteriori portate  dall’embargo decretato dall’Europa  e dagli Usa, che  ha reso ancora più difficile la vita della gente comune. Così  l’embargo  è diventato di fatto un alleato  dei terroristi nello spingere i  siriani  a fuggire verso altri Paesi, in primo luogo quelli europei.
Ma  lei ha, o ha mai avuto, rimpianti per il modo in cui la crisi è stata  gestita  da lei e dal Governo? Davvero non si sente colpevole in nulla?  Se potesse tornare indietro farebbe qualcosa di diverso? 
Bisogna  distinguere tra il parere personale,  sia pure quello del Presidente, e  il dovere di un ufficiale dello Stato. Il dovere del Governo o di  qualunque ufficiale  è stabilito dalla Costituzione ed è di difendere il  Paese. Proprio se non lo difendessimo dovremmo sentirci colpevoli.  Inoltre, abbiamo sempre cercato  di tenere aperto il dialogo con tutti  i  siriani, inclusi miliziani e terroristi, proprio per salvare più vite  possibile. Non so quanti altri Paesi sarebbero  disposti a discutere   con dei terroristi. Così  dovremmo rimpiangere  di essere stati disposti   a parlare e discutere  con tutti? Ovviamente no.
Nemmeno un errore da qualche parte, in questi sei anni di guerra e di morte? 
Ogni  politica, nel modo in cui viene  realizzata, ha dei margini di errore.  Ma gli errori non si rimpiangono, si correggono.  Ed è quanto cerchiamo  di fare  ogni giorno. La prego di rivolgere la stessa domanda, però, ai  politici dell’Occidente: avete il rimpianto di aver sempre e solo  accusato il Governo  della Siria anche mentre quelli  che chiamavate  ‘pacifici dimostranti’  e ‘moderati’ uccidevano persone innocenti?.
Il  mondo oggi si chiede quale sarà la Siria di domani. Se lei resterà al  potere,  avrà un’agenda di riforme sulle emergenze  sociali, i diritti  umani, la protezione dei cittadini rispetto all’esercito  e alle agenzie  di sicurezza? 
La guerra è una lezione durissima per qualunque  società. E noi non possiamo  limitarci a prendercela con l’Occidente  o  con le petromonarchie del Golfo Persico che finanziano i terroristi.   Dobbiamo chiederci: che cosa non funziona nel mio Paese? La mia agenda   ha un caposaldo: favorire la discussione  tra i siriani sul sistema che  il Paese  dovrà adottare. Presidenziale, parlamentare,   semi-presidenziale? È un problema di Costituzione. Dalla Costituzione,   poi, discende la natura delle istituzioni,  dall’esercito al Governo a  qualunque altra. Per modifiche di questa  portata occorre un grande  dibattito  nazionale che porti a un referendum. Ma sembra un lusso  parlare di queste cose mentre il Paese è ancora sotto attacco  da parte e  si rischia ogni giorno la vita. La priorità, ora, è sbarazzarsi dei  terroristi per arrivare alla riconciliazione  nazionale. Fatto questo,  discuteremo  liberamente di qualunque argomento o riforma.
Signor  Presidente, la politica in Medio  Oriente sembra essersi ridotta a   ‘uccidere per non essere uccisi’. Ma  si arriverà mai a qualcosa di  meglio? 
 È così, in effetti, ma la politica non  c’entra. È un  fenomeno che non è  parte della nostra cultura ma che è  cresciuto negli  ultimi decenni a  causa dell’affermarsi di una visione  wahhabita che  non tollera la  diversità. La generazione dei miei  genitori era più  aperta della mia.  Ed è un problema che tocca non  solo le persone  religiose, il rifiuto  dell’altro influenza la società  intera, in ogni  ambito. Questo  fenomeno ha avuto una grossa  parte anche nella crisi  della Siria.  Se non impariamo a farci i  conti e a combatterlo, la  guerra  civile diventerà un tratto  permanente delle società  mediorientali.  Ma, ripeto, tutto  questo non c’entra con la nostra   cultura. Infatti lo stesso  problema si è avuto in Europa,  in ogni  Paese dove si è permesso  che il wahhabismo prendesse piede.  In  Francia, per esempio. Non è un caso se molti dei più feroci leader del  Daesh, di al-Qaeda e di al-Nusra sono arrivati dall’Europa. Molti  combattenti  vengono dai Paesi arabi ma i loro capi  sono quasi sempre  europei. Ed è una  lezione di cui tutti, noi e voi, dovremmo fare  tesoro.
IL PUNTO 
Una lunga fila di dossier sulle atrocità di regime
Non passa settimana senza che Ong, organizzazioni umanitarie, l’Onu, nazioni politicamente rivali e altri soggetti accusino Bashar al-Assad e il suo Governo di crimini atroci. Bombe sui civili, massacri nelle carceri, stupri di massa, pulizia etnica… Gli accusatori non si sono fatti mancare nulla. In alcuni casi con argomenti credibili, in altri sconfinando nella propoaganda. Scoprire ora, negli anni di una guerra civile in cui nessuno si è risparmiato quanto a crudeltà, che la Siria non è, quanto a sistema politico, un modello di democrazia ma un regime, è un esercizio futile e spesso ipocrita. Non è quindi sorprendente che lo stesso Assad sorvoli sul tema dei diritti umani. È la stessa Siria che negli anni tra l’indipendenza e l’avvento degli Assad era definita, nei testi di scienze politiche, “il Paese dei colpi di Stato”. Lo stesso Paese che negli ultimi decenni ha affrontato almeno tre tentativi di rovesciamento violento. Lo stesso Governo che per molti anni (ma su richiesta della Lega araba, cosa troppo spesso dimenticata) ha di fatto occupato il Libano. Uno scenario, per chi parla di democrazia e diritti, non dissimile alla Libia, all’Iraq, ai Paesi del Golfo Persico, all’Egitto. Simile cioè all’intero Medio Oriente.
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