nel centro della guerra
LHeidelberg Institute on International conflict research pubblica un rapporto, il Conflict Barometer, che dà annualmente un quadro preciso delle guerre in corso nel mondo. Lultimo, relativo al 2011, segnala per lAfrica sub-sahariana ben 91 conflitti di diversa intensità, contro gli 89 del 2010: in 12 casi si tratta di vera e propria guerra (contro i 6 del 2010), in 34 casi di «crisi violenta». Spessissimo si tratta di conflitti locali, che non coinvolgono più Stati e forse per questo fanno anche meno rumore: non per questo, però, le conseguenze sui civili sono meno dolorose. Molto netto è il confronto con i dati relativi al 2004: allepoca infatti lo studio dellistututo tedesco segnalava solo 2 guerre, in Repubblica democratica del Congo e nelleclatante caso del Darfur, e 10 «crisi gravi», come la secessione del Somaliland dalla Somalia. Certo il numero di colpi di stato tentati e/o riusciti era superiore (8 contro i 3 del 2011), ma il totale annuale delle situazioni di conflitto era a quota 54, il 40 per cento in meno rispetto allo scorso anno.
Andando ancora più indietro, fino al 1997, le guerre in corso erano tre, le «crisi violente» 4 e il totale delle situazioni di conflitto appena 29 (meno 70 per cento rispetto al 2011). Anche se, certo, si trattava di guerre non meno feroci di quelle di oggi: era lanno della violenta caduta del regime di Mobutu nellallora Zaire, lanno delle sanguinose violenze in Ruanda tra lesercito tutsi e le milizie hutu degli Interahmwe e di una nuova escalation in Sudan tra il regime di Khartum e i ribelli sudisti di John Garang.
Balza allocchio, nei dati attuali, laumento sia della componente terroristica dei conflitti sia della matrice ideologico-religiosa, oggi alimento di numerose crisi africane. Obiettivo di questo tipo di conflitto, al di là della presa del potere o dellaccaparramento di risorse, è soprattutto quello di sovvertire lordine culturale e socioeconomico di un Paese, con una regia a volte dettata da lontano. Lelemento ideologico contava per il 9% nei conflitti del 2004, oggi si è saliti al 13%.
Una tendenza che si riflette in casi come quello della Nigeria, alle prese con i fondamentalisti islamici di Boko Haram che continuano a causare centinaia di vittime con i loro attentati prediligendo, tra gli obiettivi da colpire, la comunità cristiana. Discorso simile può essere fatto per il gruppo al-Shabaab, legato ad al-Qaeda, in lotta contro il fragile governo della Somalia ormai da sei anni. Nel solo 2011 loffensiva shabaab, unitamente a una grave carestia che ha avuto come concausa proprio linstabilità del Paese, ha provocato la fuga allestero di 286mila persone e altri 330mila profughi interni. Senza contare che anche il Kenya, negli ultimi mesi, ha subito attentati shabaab dopo che le sue truppe sono entrate in territorio somalo in funzione anti-terroristica.
Lelemento islamista è ormai ben presente anche nella fascia del Sahel. Lo si è visto nelle ultime settimane in Mali, dove linsurrezione dei tuareg nel Nord per la conquista dellAzawad è stata ben presto sbaragliata dal Movimento per lunicità e il jihad in Africa occidentale, nato da una scissione di al-Qaeda nel Maghreb islamico. Gruppo, questultimo, che peraltro ha lunghi tentacoli che si distendono dalla Mauritania al Niger, dallAlgeria al Burkina Faso.
Non che manchino, attualmente, conflitti più tradizionali. Nella Repubblica democratica del Congo i ribelli del movimento M23 hanno guadagnato terreno nel Nord Kivu (il Ruanda è accusato di sostenere loperazione) razziando villaggi e provocando la fuga di 220mila persone. Al di là delle motivazioni di facciata, quel che conta, in questo caso, sono le immense ricchezze congolesi, dai diamanti alloro al coltan. E ancora, il Sud Sudan, nato appena lo scorso luglio dopo due decenni di guerra con il Nord, è tornato a imbracciare le armi contro Khartum in un conflitto infinito che puzza maledettamente di petrolio. Perché le «buone ragioni», per la guerra, evidentemente non mancano mai.
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