di Paul De Maeyer
ROMA, mercoledì, 14 settembre 2011 (ZENIT.org).-Un disastro evitato per un pelo. Lo ha ammesso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, commentando l’assalto all’ambasciata dello Stato ebraico nella capitale egiziana Il Cairo, conclusosi questo fine settimana con almeno tre morti e centinaia di feriti e di arresti. L’aggressione contro la sede diplomatica, che secondo Netanyahu “simboleggia la pace tra noi e l’Egitto” (The Guardian, 11 settembre), si è verificato dopo la tradizionale preghiera del venerdì e l’ormai altrettanto tradizionale manifestazione di protesta nella centralissima piazza Tahrir quando alcune centinaia di dimostranti si sono diretti verso l’ambasciata e hanno cercato di buttare giù il nuovo muro di protezione costruito attorno all’edificio.
Nonostante la presenza delle forze dell’ordine, alcune decine di manifestanti sono riuscite a sfondare le porte e ad entrare nell’ambasciata. Solo l’intervento delle forze speciali egiziane ha evitato il peggio e permesso di trarre in salvo il personale diplomatico israeliano, tra cui anche l’ambasciatore Yitzhak Levanon.
Mentre alcuni gruppi di dimostranti hanno cercato anche di avvicinarsi all’ambasciata dell’Arabia Saudita, a provocare l’ira dei manifestanti, tra i quali anche gli “ultras” di alcune squadre di calcio, è stata proprio la costruzione del muro di cinta. Parlando con AsiaNews (10 settembre), il portavoce della Chiesa cattolica in Egitto, padre Rafic Greche, ha definito la decisione di erigere la recinzione “una cattiva idea”. Secondo il sacerdote, “ha creato la stessa sensazione del muro costruito da Israele nella Cisgiordania”.
Già da settimane, la tensione attorno all’area dove sorge la sede diplomatica era palpabile, conseguenza dell’uccisione per errore di varie guardie di frontiera egiziane da parte dell’esercito israeliano, avvenuta il 18 agosto scorso dopo una serie di attentati nella zona turistica di Eilat, sul Mar Rosso, in cui erano morti 7 cittadini israeliani.
Secondo i commentatori, fra cui il giornalista indipendente Jacques Benillouche, l’assalto è stato un atto “premeditato”, poiché i manifestanti hanno attaccato le forze di polizia con bottiglie incendiarie (Slate.fr, 10 settembre). Della stessa opinione è il missionario comboniano, padre Giovanni, che vive al Cairo. “E’ difficile pensare che si sia trattato di un evento spontaneo”, ha raccontato all’agenzia Fides (12 settembre). “Si è trattato di un fatto pianificato. La manovalanza è stata reclutata tra le tifoserie calcistiche”.
Per il missionario, l’attacco violento rappresenta “un gesto di rottura con il passato”. “E’ stato violato un luogo ‘sacro’, che sotto il regime di Mubarak non sarebbe mai stato attaccato in quel modo”, ribadisce. Anche Clemens Wergin definisce su Welt Online (11 settembre) l’assalto una “Wende”, cioè una “svolta”. Secondo l’editorialista, gli eventi di questo fine settimana dimostrano infatti che a più di mezzo anno di distanza dalla caduta del presidente Hosni Mubarak le rivoluzioni arabe hanno perso la loro innocenza e sono ritornate alle “antiche ricette” per mobilitare le masse. “Quando le idee sono esaurite, allora incitano contro Israele”, sostiene.
Per lo Stato ebraico, l’assalto, che richiama alla mente il drammatico sequestro dell’ambasciata statunitense a Teheran dai rivoluzionari iraniani nel novembre del 1979, avviene proprio in un momento molto delicato. Non solo l’Autorità nazionale palestinese (ANP) intende chiedere alle Nazioni Unite di riconoscere unilateralmente la Palestina ma inoltre Israele sta attraversando una grave crisi diplomatica con un suo ormai ex alleato, cioè la Turchia del combattivo primo ministro filo-islamico Recep Tayyip Erdogan, il quale esige le scuse di Gerusalemme per l’arrembaggio della flottiglia umanitaria diretta a Gaza, in cui morirono nel maggio dell’anno scorso nove cittadini turchi.
Come se non bastasse, Erdogan, che ha appena rotto i rapporti diplomatici con Israele, ha iniziato proprio questo lunedì 12 settembre una visita in Egitto, la prima tappa di un giro che lo porterà anche in altri Paesi della “Primavera araba”, Libia e Tunisia. Per molti analisti, l’obiettivo del premier non è solo rafforzare le relazioni con le nuove amministrazioni nella regione ma anche promuovere il suo Paese come nuova potenza leader del mondo musulmano. Il crescente isolamento di Israele sembra far parte di questa “politica egemonica neo-ottomana”, come l’ha definita Shlomo Avineri, professore di Scienza politica presso l’Università ebraica di Gerusalemme (The Washington Post, 11 settembre).
Martedì 13 settembre, rivolgendosi ai ministri degli Esteri della Lega araba, riuniti al Cairo, Erdogan ha paragonato Israele a un “bambino viziato” ed ha spezzato una lancia per la causa palestinese all’ONU, ribadendo che entro la fine dell’anno “vedremo la Palestina in una situazione molto diversa” (BBC, 13 dicembre). “Dobbiamo lavorare mano nella mano con i nostri fratelli palestinesi. La causa palestinese è la causa della dignità umana”, ha continuato. “E’ ora di alzare la bandiera palestinese alle Nazioni Unite”, ha detto. Lo Stato ebraico invece – ha sostenuto il premier turco – uscirà dal suo isolamento “solo se agisce come uno Stato ragionevole, responsabile, serio e normale”.
Secondo quanto segnalato da padre Greche, fra gli assalitori dell’ambasciata c’era anche gente con una copia del Corano in mano o in tasca. Forse è solo un dettaglio, il quale assume però particolare rilievo sullo sfondo del prossimo appuntamento elettorale, previsto inizialmente per settembre ma slittato a novembre. Secondo alcuni sondaggi, le forze islamiste – dai Fratelli musulmani al Partito della Luce dei salafiti – rischiano infatti di spazzare via tutto il resto. Sarebbe un “disastro geopolitico”, frutto del “devastante vuoto di potere” che prevale oggi al Cairo, ha scritto Franco Venturini sul Corriere della Sera (11 settembre). “L’Egitto non sta camminando verso la democrazia ma verso l’islamizzazione”, avverte senza mezze parole l’ex ambasciatore israeliano al Cairo, Eli Shaked. “E’ la stessa cosa in Turchia e a Gaza.Èproprio quello è successo in Iran nel 1979”, ha ribadito (The New York Times, 10 settembre).
La prospettiva di una possibile vittoria degli islamisti preoccupa fortemente la comunità cristiana dell’Egitto. La gente comune, così ha dichiarato in un’intervista a Terrasanta.net (1 settembre) il patriarca cattolico di Alessandria dei copti, il cardinale Antonios Naguib, “segue quello che viene predicato nelle moschee. E gli imam parlano tutti di instaurare uno Stato religioso”. “I partiti islamici non fanno che ripetere che verranno rispettati i diritti dei cristiani sulla base della legge islamica. Ma io non riesco a capire già la necessità di questa premessa: che tutto debba essere regolato dalla legge islamica. Che uguaglianza c’è? Per me è una contraddizione”, ha continuato il porporato, il quale teme giustamente un ritorno ai tempi in cui i non musulmani erano solo tollerati come “infedeli protetti” o “dhimmi”, pagando cioè una tassa supplementare o “jizya”.
Ed è proprio questo che vogliono alcuni esponenti islamisti, fra cui lo sceicco salafita Adel el-Ghihadi. In un’intervista pubblicata a metà agosto sul settimanale di cultura e politica Rose al-Yusuf e definita “delirante” da Giuseppe Caffulli (Terrasanta.net, 26 agosto), lo sceicco ed ex combattente tra le file dei talebani in Afghanistan non ha avuto alcun dubbio. “La rivoluzione va vista alla luce della religione e non dal punto di vista politico. Per essere legale deve appoggiarsi sulla sharia islamica”, ha spiegato. “Il nostro piano di lavoro sarà appunto quello di governare l’Egitto sui principi della legge islamica. Quindi completeremo l’islamizzazione delle nazioni attorno a noi, inviando musulmani missionari in Sudan e Libia. Poi passeremo Stato per Stato per convertire tutti all’islam e fare accettare la sharia. Prepareremo un esercito egiziano capace di formare altri eserciti islamici, ai quali Allah darà sicura vittoria”.
Anche per quanto riguarda la presenza dei cosiddetti “infedeli” in terra egiziana, el-Ghihadi ha purtroppo le idee ben chiare. “I cristiani e gli ebrei per noi sono kafir, miscredenti. Io come musulmano devo sostenere il musulmano, prima del cristiano. Gli altri vanno considerati nemici. Se non mi danno fastidio, li posso anche trattare con benevolenza. Sempre dentro certi limiti”, ha affermato, aggiungendo però che “tuttavia i cristiani non devono occupare un posto di rilievo come quello di giudice nei tribunali, né nell’esercito e né nella polizia”. Per lo sceicco, “i cristiani sono liberi di pregare nelle loro chiese. Ma se esse sono oggetto di discordia e ci sono problemi, le distruggerò. Non posso contraddire la mia religione per far contenta la gente. Chi vuol vivere in un Paese a maggioranza musulmana, deve accettare le sue leggi. O paga il tributo o si fa musulmano, oppure viene ucciso”.
Leggendo queste dichiarazioni, sarebbe forse meglio parlare di “Inverno arabo”. D’altronde, per essere precisi, la rivolta in Tunisia è cominciata a cavallo tra l’autunno e l’inverno, cioè il 17 dicembre del 2010, e la caduta di Mubarak è avvenuta in pieno inverno, ossia l’11 febbraio scorso…