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GAZA – (15 Maggio 2018)

Israele. A Gaza tre giorni di lutto. Bimba di 8 mesi uccisa dai lacrimogeni


Redazione Internet martedì 15 maggio 2018
Il giorno dopo il massacro, ancora un palestinese ucciso. Convocato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ma gli Usa avrebbero bloccato una bozza di risoluzione che condannava Israele
I funerali a Gaza di un giovane di 29 anni ucciso nelle proteste di lunedì (Ansa)

I funerali a Gaza di un giovane di 29 anni ucciso nelle proteste di lunedì (Ansa)

Il giorno dopo il massacro più pesante da anni nei Territori palestinesi, a Gaza si dà sepoltura ai morti (saliti a 61) nelle proteste scatenate dal trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme. E si preparano a nuove manifestazioni, mentre sono stati proclamati tre giorni di lutto. Intanto, secondo fonti diplomatiche al Palazzo di Vetro, gli Stati Uniti hanno bloccato all’Onu una richiesta di inchiesta indipendente su ciò che è accaduto al confine tra Israele e Gaza, dove lunedì sono morti 58 palestinesi (e altri 3 sono deceduti stamani) per mano dell’esercito dello Stato ebraico e oltre 2.800 sono rimasti feriti. Nella notte è morta anche una bimba di appena otto mesi, perché aveva inalato gas lacrimogeni. Non è chiaro quanto lontano fosse, insieme ai suoi genitori, dalla zona degli scontri.

Dopo la strage, la più grave dalla guerra del 2014, il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha proclamato uno sciopero generale e tre giorni di lutto.

Ma oggi i palestinesi celebrano anche il 70esimo anniversario della Nakba, la catastrofe, l’esodo forzato dalle terre arabe confiscate da Israele con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948. Nel corso delle proteste di oggi un manifestante palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani a est del campo profughi di Al-Bureij nella parte centrale di Gaza. L’uomo è stato identificato in Nasser Aourab, 51 anni.

Pizzaballa condanna l’uso di «violenza sproporzionata»

Sulla «ennesima esplosione di odio e violenza, che sta insanguinando ancora una volta la Terra Santa» è intervenuto l’Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, che ha espresso «condanna di ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata». «La vita di tanti giovani ancora una volta – ha scritto Pizzaballa – è stata spenta e centinaia di famiglie piangono sui loro cari, morti o feriti. Ancora una volta, come in una sorta di circolo vizioso, siamo costretti a condannare ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata. Ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace! Questi comunicati di condanna ormai si ripetono, simili ogni volta l’uno all’altro». Da qui l’invito dell’arcivescovo a tutta la comunità cristiana della diocesi «a unirsi in preghiera per la Terra Santa, per la pace di tutti i suoi abitanti, per la pace di Gerusalemme, per tutte le vittime di questo interminabile conflitto».

All’Onu è rischio stallo

Oggi si riunisce il Consiglio di sicurezza dell’Onu ma non è chiaro cosa potrebbe uscire. È stato il Kuwait a chiedere la riunione urgente: tra l’altro un gran numero delle vittime palestinesi sono decedute o rimaste ferite da proiettili sparati dall’esercito israeliano. Quando si riunì a marzo, dopo analoghe (ma meno sanguinose) proteste palestinesi, dal Consiglio di Sicurezza non uscì alcuna dichiarazione o azione congiunta.

Fonti diplomatiche hanno reso noto nella notte che i componenti del Consiglio non sono riusciti a trovare l’accordo su una bozza di risoluzione proposta dal Kuwait perché gli Usa l’hanno bloccata: nel testo, secondo l’Associated Press, si esprimeva «indignazione e dolore» per le morti, si chiedeva un’«inchiesta indipendente e trasparente» e si invitavano tutte le parti ad esercitare moderazione. La dichiarazione sollecitava anche tutti i Paesi al rispetto di una ben nota risoluzione del Consiglio di Sicurezza che invita tutti i Paesi a non avere ambasciate a Gerusalemme, dove lunedì gli Usa hanno inaugurato la loro legazione.

Già a dicembre gli Stati Uniti avevano posto il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza che chiedeva al presidente Donald Trump di fare marcia indietro sulla dichiarazione di Gerusalemme come capitale di Israele.

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