IMMIGRAZIONE – (8 Febbraio 2017)

Michael è arrivato in Italia dal Ghana da due anni e ancora non sa se gli verranno concessi i documenti per rimanere, anche se da qualche mese lavora in un’azienda che produce impianti automatizzati e quadri elettrici, e il suo datore di lavoro vorrebbe assumerlo dopo il tirocinio. “Mi trovo molto bene, mi piace il lavoro che faccio”, racconta sorridente, mentre parla del suo viaggio attraverso il deserto del Niger verso la Libia.

“Quando sono partito dal Ghana, nel 2012, pensavo di rimanere a lavorare in Libia. Nel mio paese ero un perseguitato politico e sono dovuto scappare, perché ero un sostenitore del New patriotic party (Npp), il partito che aveva contestato le elezioni nel 2012. In Libia ho avuto esperienze terribili, sono stato arrestato, la Libia è un paese pericoloso”. Indossa una camicia a pois e un giubbotto di pelle nera, il suo italiano ogni tanto s’inceppa, ma con determinazione Michael prova a esprimersi nella lingua che sta studiando, rincorre le parole, poi quando teme di non essere capito passa all’inglese: “Sto studiando l’italiano, mi piace. Ho un sacco di amici a Torino, i ragazzi della cooperativa mi hanno aiutato a entrare nel corso di formazione, poi ho fatto un tirocinio nell’azienda che ora mi vorrebbe assumere”.

Dopo due anni in Italia e un’autonomia economica conquistata con fatica attraverso un programma di tirocinio attivato dal centro di accoglienza del servizio Sprar in cui è stato accolto, Michael non sa ancora che ne sarà della sua vita. Rischia che gli venga negato l’asilo anche dalla corte d’appello e che il suo datore di lavoro debba ritirare la proposta di assunzione che ha pronta nel cassetto, perché Michael, se l’asilo gli fosse negato definitivamente, diventerebbe di nuovo un irregolare, senza documenti validi per lavorare e per prendere in affitto una casa.

Tornerebbe nel limbo dell’illegalità, diventerebbe uno dei tanti fantasmi, creati dal sistema di accoglienza italiano che da una parte investe sull’integrazione, mentre dall’altra parte non premia le esperienze positive. “Se l’appello contro la decisione in primo grado del tribunale andasse male perderei il lavoro, perderei la casa, perderei tutto. Ma non tornerei in Ghana, la mia vita è qui, sono venuto per imparare e per lavorare”, dice Michael con fermezza.

La fabbrica della clandestinità
La storia del ragazzo ghaneano è simile a quella di centinaia di richiedenti asilo, che vivono in Italia da anni e che hanno ricevuto una risposta negativa alla loro domanda d’asilo dopo anni di attesa, ma nel frattempo grazie ai programmi di accoglienza del sistema nazionale Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) sono riusciti a integrarsi e a trovare un lavoro.

“Purtroppo mi capita sempre più spesso di dover comunicare ai ragazzi che sono da noi che è arrivata una risposta negativa prima dalla commissione territoriale e poi dal tribunale”, spiega Carla Mariani, una delle operatrici della cooperativa Esserci di Torino, che da 23 anni si occupa dell’accoglienza dei migranti. “Nell’appartamento in cui vive Michael, di sei ragazzi quattro hanno ricevuto il diniego”, racconta. “Stamattina dovrò dire a un ragazzo che è stato con noi per tre anni, che il suo appello è stato rigettato e che quindi dovrà lasciare la struttura entro sette giorni”.

Un richiedente asilo al lavoro in un’azienda che produce sedili per la Lamborghini a Grugliasco, 2015. - Giorgio Martinale

Un richiedente asilo al lavoro in un’azienda che produce sedili per la Lamborghini a Grugliasco, 2015.

“Per noi operatori la frustrazione è molto grande, perché il nostro lavoro viene completamente vanificato, i programmi di tirocinio e di borsa lavoro funzionano per fortuna molto bene a Torino e i ragazzi riescono attraverso questi programmi a inserirsi nella vita lavorativa della città”, racconta. “Tuttavia il rifiuto della protezione vanifica tutto. Quando arriva una risposta negativa tutto il loro impegno diventa inutile, e i ragazzi vengono spinti nella disperazione”. “Chi non lavora con questi ragazzi non si rende conto dell’investimento da parte loro. È il progetto della loro vita”, dice Mariani.

Nel 2016 hanno ricevuto risposta negativa il 56 per cento delle domande d’asilo

Il sistema Sprar di Torino funziona molto bene, riesce ad attivare 350 tirocini all’anno. Ma i percorsi d’integrazione che i ragazzi hanno fatto non vengono valutati dalle commissioni territoriali, né dai tribunali e non ci sono altri modi in Italia per ottenere una regolarizzazione e un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

“Per il giudice, il lavoro che il ragazzo ha trovato, il suo grado di integrazione non è importante per concedere una forma di protezione”, spiega l’operatrice. E questa situazione sta peggiorando: nel 2017 le richieste d’asilo in Italia sono aumentate del 46 per cento, ma i tempi per l’esame della domanda da parte delle autorità si sono dilatate. Le richieste esaminate dalle venti commissioni attive in Italia sono diminuite del dieci per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Sono aumentati invece i dinieghi, cioè le risposte negative da parte delle commissioni territoriali. Nel 2016 hanno ricevuto risposta negativa il 56 per cento delle domande, secondo il rapporto presentato durante un’audizione il 31 gennaio dal prefetto Angelo Trovato, presidente della commissione nazionale per il diritto d’asilo. Nel 2014 avevano avuto un esito negativo il 39 per cento delle domande esaminate, nel 2013 il 29 per cento, nel 2012 il 21 per cento.

La maggior parte delle persone che ricevono una risposta negativa da parte delle commissioni territoriali presenta un ricorso in tribunale. Dal 2014 al 2016 sono stati presentati 53mila ricorsi e il 70 per cento di questi è stato accolto. Il fatto che un numero così alto di ricorsi sia stato accettato mette in discussione le valutazioni che sono state fatte dalle commissioni territoriali. Inoltre la situazione non è omogenea sul territorio nazionale: cambia molto da commissione a commissione, da tribunale a tribunale, in base a logiche che sembrano discrezionali.

“In certi tribunali alcune domande vengono valutate positivamente, in altri tribunali e in altre zone d’Italia le stesse situazioni vengono valutate negativamente. A noi operatori sembra una lotteria”, spiega Carla Mariani. “Ci capita sempre più spesso che i datori di lavoro ci chiedono di parlare con gli avvocati per essere ascoltati dal giudice perché vogliono che venga messo agli atti che sono disposti ad assumere i ragazzi”, racconta.

Un richiedente asilo della Guinea Bissau che ha ricevuto il doppio diniego nella pasticceria Dolcearea di Torino, gennaio 2017.

“I ragazzi, dal canto loro, non sono disposti a tornare indietro. Anche se vengono stroncate le loro prospettive di un futuro in Italia. Le autorità sperano che in questo modo i ragazzi tornino indietro nei loro paesi di origine, in realtà non fanno altro che spingere queste persone nelle mani dei caporali, nella migliore delle ipotesi, della criminalità nella peggiore”, afferma Mariani. Già nel maggio del 2016 Carlo Perego, presidente della Fondazione Caritas Migrantes, aveva avvertito sulle dimensioni del fenomeno: “Sta crescendo il popolo di chi riceve il diniego all’asilo. Serve valutare, da parte del governo, la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario per evitare che si crei un popolo di invisibili, sfruttati”.

Senza asilo
A Torino ci sono circa cinquanta casi di richiedenti asilo che hanno ricevuto il “doppio diniego”, un rifiuto della domanda di asilo sia da parte della commissione territoriale sia da parte del tribunale, anche in presenza di un’integrazione economica e lavorativa. Questa situazione ha spinto operatori, avvocati e associazioni torinesi a lanciare nel dicembre del 2016 una campagna chiamata SenzaAsilo per portare questo fenomeno all’attenzione delle autorità. “Siamo alla terza riunione e il progetto sta riscuotendo molta attenzione anche al di fuori del nostro territorio, segno che il tema è molto sentito”, spiega Anna Bertrand della cooperativa sociale Progetto tenda, tra le promotrici della rete.

“Abbiamo chiesto di incontrare il prefetto, di collaborare di più con le commissioni territoriali, ma al livello nazionale appoggiamo la raccolta firme lanciata dai Radicali per chiedere la riforma del Testo unico sull’immigrazione (la cosiddetta legge Bossi Fini). Secondo noi il principale problema è il quadro legislativo, che non permette la regolarizzazione per motivi di lavoro delle persone che sono già sul territorio italiano”, afferma Bertrand.

Stiamo creando un esercito di clandestini che potrebbero non esserlo

“I dinieghi appaiono purtroppo caratterizzati da una marcata discrezionalità e non valorizzano adeguatamente il percorso di inclusione sociale svolto”, è spiegato nel documento fondativo della rete SenzaAsilo. Spingere nell’irregolarità persone che sono passate nel sistema di accoglienza, vanifica non solo gli sforzi e l’investimento compiuto dal migrante, ma anche tutto il lavoro degli operatori, senza considerare lo spreco di risorse economiche pubbliche.

“Ad Asti su un totale di 140 persone accolte, abbiamo avuto circa 60 dinieghi”, spiega Alberto Mossino, fondatore del Piam. “Si tratta di persone arrivate in Italia tra il 2014 e il 2015, hanno tutti frequentato una scuola di italiano, fatto i corsi di formazione, svolto almeno due mesi di tirocinio o lavoro volontario, qualcuno ha anche trovato lavoro”, continua Mossino. “Se si calcola che ognuno di loro è costato allo stato 35 euro al giorno per 18 mesi, significa che si è trattato di 1.228.500 di euro vanificati”, afferma Mossino. “Potevamo accompagnare questi ragazzi a diventare cittadini, lavoratori e contribuenti e invece abbiamo creato degli irregolari”, conclude. Al movimento SenzaAsilo si sono aggregate moltissime aziende che vogliono difendere questa esperienza di integrazione sperimentata con i richiedenti asilo.

“Di recente il proprietario di un supermercato mi ha confessato che, prima di conoscere personalmente un richiedente asilo andato a fare il commesso da lui, aveva paura dell’immigrazione, ma il fatto di aver conosciuto questo ragazzo gli ha cambiato la prospettiva sull’intero fenomeno”, racconta Anna Bertrand. “Il valore di queste esperienze è sociale e culturale, oltre che economico”.

Secondo gli operatori e le associazioni, il fenomeno dell’arretramento dei richiedenti asilo in una posizione di irregolarità è favorito da un quadro legale nazionale che non permette nessun accesso in Italia per motivi di studio e di lavoro e un approccio alle politiche dell’immigrazione sempre più caratterizzato dalla criminalizzazione del migrante e dalla gestione emergenziale dell’accoglienza.

“Sarebbe più ragionevole porre mano ai meccanismi di regolarizzazione degli stranieri, valorizzando i legami lavorativi, familiari e sociali già esistenti che quelle persone hanno magari costruito nel loro percorso di integrazione”, afferma l’avvocato Dario Belluccio dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “E non è per bontà d’animo ma perché è con la regolarità di soggiorno e l’integrazione che li si rende ‘visibili’ e non li si lascia in condizione di precarietà sociale e lavorativa”, afferma Belluccio. “Stiamo creando un esercito di clandestini che potrebbero non esserlo”, conclude Anna Bertrand.

Il testo originale e completo si trova su:

http://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2017/02/08/migranti-lavoro-clandestini

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