Si è svolta questa settimana, ad Ankawa, governatorato di Erbil nel Kurdistan iracheno, lassemblea di tutti i vescovi iracheni, allappello ne mancavano solo due, alla presenza del nunzio apostolico, mons. Giorgio Lingua. I vescovi hanno parlato di come strutturare lassemblea, dei tribunali ecclesiastici con la formazione di una commissione ad hoc, e hanno incontrato il direttore della Caritas che ha illustrato i progetti in atto e un rappresentante della Roaco (Riunione delle opere aiuto Chiese orientali) con il quale hanno assunto limpegno di aprire ad Erbil un ufficio per meglio coordinare le azioni di sostegno. Ma a impegnare maggiormente i vescovi è stata la situazione politica interna e le condizioni dei cristiani. Si susseguono, infatti, attacchi kamikaze, omicidi ed esplosioni di bombe, aumentati dopo il ritiro, il 18 dicembre, dei soldati americani dal Paese. Secondo cifre fornite dai ministeri della Salute e dellInterno iracheni, sarebbe di almeno 265 morti e di centinaia di feriti il bilancio delle violenze nellultimo mese. Gli iracheni, non solo cristiani, cominciano a lasciare di nuovo il Paese, mentre chi resta non può che guardare con pessimismo al futuro. Al termine dellincontro lassemblea ha diffuso una dichiarazione finale con un appello al dialogo e alla riconciliazione. Il SIR ne ha parlato con larcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako.
La nostra dichiarazione spiega larcivescovo caldeo riguarda soprattutto la situazione irachena dove ci sono gravi tensioni e vuole essere un accorato appello alla riconciliazione e al dialogo, al Paese, ai partiti, al popolo, al governo. Siamo strenuamente convinti che lIraq non avrà futuro senza il dialogo e la riconciliazione. Qui è tutto politicizzato, anche la religione, ed è il grande limite del nostro Paese. Il futuro iracheno deve essere costruito da tutti, nessuno escluso. Lunione dei gruppi politici, a riguardo, potrebbe fare molto.
Ma intanto le famiglie irachene, non solo cristiane, tornano a lasciare il Paese. Come fermare lemigrazione?
Le migrazioni vanno fermate rafforzando il cammino di pace, di convivenza, ribadendo il valore del diritto e della giustizia, dando dignità ai più svantaggiati, alle famiglie, ai rifugiati. Dobbiamo tornare a vivere in un contesto degno delluomo, sicuro e stabile, e lavorare insieme per il bene di tutti i cittadini.
Ripristinare la stabilità e la sicurezza appare sempre più difficile ora che i militari Usa hanno concluso il loro ritiro dallIraq…
Il ritiro Usa ha aggravato la situazione, il rischio di attacchi ora è più alto, ed evidenziato profonde spaccature politiche. Mai come ora il rischio di frammentazione dellIraq è alto. Le divisioni tra sunniti, sciiti e curdi sono chiare; per questo, come comunità cristiana, abbiamo lanciato questo appello alla riconciliazione, alla partecipazione e al dialogo.
Quello di Ankawa è lultimo di una lunga serie di appelli alla pace. Le violenze perpetrate, ormai dal 2003, ai danni della comunità cristiana locale inducono a pensare che siano rimasti inascoltati. Cè frustrazione tra i cristiani per questo?
Non credo. Tutti apprezzano la posizione della Chiesa che vuole fungere da ponte tra i vari gruppi sociali e politici in Iraq. Certamente la situazione è grave e resa ancor più complessa dalle pressioni dei Paesi vicini e dallimpatto che ha, sul piano interno, quanto sta accadendo in Siria, Egitto e in altre parti del Medio Oriente. Ma come Chiesa locale rivendichiamo il nostro ruolo di dialogo e anche di denuncia di ciò che non è giusto. Vogliamo dialogare, parlare con tutti, senza violenza, senza pressioni, senza emarginare nessuno.
Cè qualcuno, in Iraq, che può raccogliere il vostro grido di pace?
Non siamo soli. I cristiani sono chiamati a dare testimonianza di amore, di pace, di convivenza, ad essere una voce profetica. Ripeto: non siamo soli. Nel Paese ci sono tantissime persone, musulmani, intellettuali, leader non politicizzati che credono nel dialogo e vogliono costruire un Iraq nuovo e giusto. Con loro camminiamo.
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