IRAQ – (6 Dicembre)

IRAQ Rimarrà solo?

Gli ultimi militari Usa entro dicembre lasceranno il Paese

Saranno definitivamente abbandonate, entro la fine dell’anno, le sette basi militari Usa ancora operative in Iraq. Gli ultimi 13 mila militari statunitensi si apprestano a lasciare il Paese dopo l’annuncio del ritiro dello scorso ottobre del presidente Barack Obama, causato dal fallimento delle trattative con il governo iracheno per il mantenimento di un contingente militare americano nel Paese. “Abbiamo mantenuto la promessa di ritirare le nostre truppe dalle città irachene nel 2009, abbiamo mantenuto la promessa di porre fine alle missioni di combattimento nell’estate 2010 e ora manteniamo l’impegno preso nel 2008 per ritirare tutti i soldati alla fine di quest’anno”, ha affermato il vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ha incontrato a Baghdad il primo ministro Nuri al-Maliki. Da gennaio 2012 resteranno in Iraq istruttori civili per formare il personale che lavorerà sugli armamenti ceduti dagli Stati Uniti. Circa 200 militari saranno, invece, assegnati all’ambasciata statunitense. Il ritiro americano viene accompagnato in questi giorni da una recrudescenza di violenza settaria, arrivata a toccare zone come il Kurdistan iracheno, ritenuto, soprattutto dai cristiani in fuga, tranquillo e sicuro. Non più tardi di pochi giorni fa a Zakho, città del Kurdistan confinante con la Turchia e distante circa 500 km dalla capitale Baghdad, gruppi di estremisti islamici hanno attaccato e distrutto negozi e proprietà dei cristiani, provocando il ferimento di almeno 30 persone, fra cui 20 poliziotti.

Sotto minaccia. “Gli Usa avrebbero dovuto pacificare il Paese e solo dopo lasciare l’Iraq invece…”. È il commento rilasciato al SIR dal vicario patriarcale caldeo di Baghdad, mons. Shlemon Warduni, preoccupato per il futuro del suo Paese e della comunità cristiana sempre più in balia della violenza settaria. “Il governo – aggiunge il presule – afferma che è pronto a prendere in mano la situazione e sinceramente non so come ciò sarà possibile se non finiranno gli attentati con kamikaze e autobombe. Come avere fiducia quando solo pochissimi giorni fa è stata fatta scoppiare un’autobomba al Parlamento, e a Zakho, venerdì scorso, sono stati distrutti locali e abitazioni dei cristiani? In questi giorni, in Kurdistan, sono apparsi volantini recanti minacce di morte a proprietari di negozi di alcolici nel caso in cui avessero aperto. Massud Barzani, presidente curdo, si è recato nella cittadina e ha condannato l’accaduto promettendo impegno per individuare mandanti e colpevoli. Fatti del genere danneggiano tutta la nazione”. Per mons. Warduni, “il fanatismo religioso è una minaccia che si aggiunge a quelle già presenti in Iraq, Paese che avrebbe bisogno di stabilità, di sicurezza, di lavoro e di una politica a servizio del bene comune. Finché ci saranno fanatici, kamikaze, terroristi le cose non andranno bene e non solo per i cristiani”. “Seguiamo con attenzione quanto avviene fuori dei nostri confini, in Siria, in Libia, in Tunisia, in Egitto, dove notiamo il consolidamento di forze islamiste come i Fratelli Musulmani e Salafiti. Siamo molto preoccupati – dice il vicario – di questo rafforzamento”.

Il vero padrone. “Da parte nostra, come comunità cristiana, ribadiamo il nostro impegno a favore del dialogo, della riconciliazione e della rinascita dell’Iraq. Abbiamo a cuore la pace e la sicurezza del popolo. Non è facile – ammette mons. Warduni – quando sono sempre di più coloro che lasciano il Paese. L’emigrazione è una malattia contagiosa e preoccupante che non riguarda solo i cristiani ma tutto l’Iraq”. “Il governo non è in grado di proteggere il suo popolo – denuncia il vescovo – la gente perde fiducia ed emigra. Serve allora un grande sforzo da parte del mondo politico per lavorare disinteressatamente a favore del bene comune, sacrificandosi con amore per questo. Quell’amore che sembra essere stato smarrito anche da molti cristiani e non solo in Iraq. Senza fede in Dio non si va da nessuna parte. È l’interesse economico oggi il padrone in Iraq, è l’avidità a determinare le scelte e a seppellire così il dialogo e la riconciliazione. A farne le spese è il popolo”. “Gli americani – conclude – avrebbero dovuto aiutare il nostro Paese a crescere, a ricostruirsi, a stabilizzarsi. Se gli Usa e i leader politici iracheni avessero lavorato non per il bene dei governanti ma dei governati, oggi non staremmo qui a parlare di missione incompiuta. Non dobbiamo, tuttavia, perdere la speranza. Non ce lo possiamo permettere, per questo invito tutti a pregare per la pace e la sicurezza in Iraq e nel mondo”.

 
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