Patriarca Sako: dal papa un appello, Chiesa irakena “ponte” per l’incontro con i musulmani
di Dario Salvi
Mar Louis Raphael I racconta ad AsiaNews le linee programmatiche della nuova missione, fondata sullunità e il dialogo a cominciare da una liturgia comune e riformata. La rinnovata collaborazione fra i vescovi, elemento di forza nel confronto con leader politici e religiosi. La speranza che anche nellislam prevalga il messaggio e non regole e sistemi.
Roma (AsiaNews) – La Chiesa caldea deve restare “un ponte” per favorire e rafforzare il dialogo fra cristiani e musulmani in Iraq, fra cittadini di etnie diverse, oltre che fra istituzioni e politica. Questo è l’invito che Benedetto XVI ha consegnato al nuovo Patriarca caldeo, come racconta in una lunga intervista ad AsiaNews lo stesso Mar Louis Raphael I Sako, nominato il 31 gennaio scorso in sostituzione del card. Emmanuel Delly III, dimissionario per raggiunti limiti di età. Al “mini Conclave” caldeo, iniziato il 28 gennaio scorso a Roma, hanno preso parte 15 vescovi caldei, di cui sette provenienti dall’Iraq, due dall’Iran, due dagli Usa, e uno rispettivamente da Libano, Siria, Australia e Canada. L’arcivescovo di Kirkuk – anche se a breve lascerà il nord, alla volta di Baghdad – conferma l’obiettivo di “unità e collaborazione” fra i vescovi caldei, premessa necessaria per trovare un punto di contatto e dialogo con i vertici irakeni, religiosi e politici. Fra i primi traguardi da raggiungere, spiega sua Beatitudine, vi è anche la riforma della liturgia, che oggi giudica “un caos”.
Il neo Patriarca, di rientro oggi in Iraq, non dimentica al contempo il dramma dei profughi cristiani irakeni, ai quali vanno fornite “le condizioni” per il rientro in patria: casa, lavoro, scuole, infrastrutture e sicurezza. Storico fautore e promotore del dialogo interreligioso, Mar Louis Raphael I si dice “molto deciso” ad aprire un tavolo di confronto con la leadership della capitale, dopo aver ricevuto gli “auguri sinceri” dei capi religiosi e dei principali leader politici e dalle massime cariche istituzionali. E la speranza che, anche nel mondo islamico, possa “restare il messaggio” portato da Maometto e “il senso che dà alla nostra vita”, non i sistemi o leggi che “finiscono per soffocare le libertà.
Ecco, di seguito, l’intervista del nuovo Patriarca caldeo ad AsiaNews:
Beatitudine, innanzitutto quale augurio le ha rivolto papa Benedetto XVI nel vostro incontro dopo la nomina?
L’attenzione del papa alla Chiesa irakena mi ha profondamento colpito. Ha dedicato del tempo a ciascuno di noi vescovi. Ho voluto ringraziarlo per la vicinanza e la preghiera e, in tono scherzoso, gli ho detto che “mi sento male” con questo rosso addosso (nella foto), non ci sono abituato. Benedetto XVI ha ribadito che continuerà a pregare per noi e si è detto “molto contento” per l’unità che è emersa all’interno dell’episcopato caldeo, una unione di intenti che è emersa anche in occasione del voto per l’elezione del Patriarca. Dunque, anche questo è un aspetto molto positivo e importante per una Chiesa che, fino al recente passato, era divisa. Abbiamo fatto una due giorni di incontri fra noi, con tutti i vescovi: si è parlato della situazione in Iraq, della pace e della sicurezza. Il Papa mi ha infine rivolto un appello, perché restiamo sempre – come in passato – un ponte per tutti, fra cristiani e musulmani e fra cittadini irakeni. Tra l’altro gli ho portato i saluti di due imam, uno sciita e uno sunnita, e lui è rimasto piacevolmente sorpreso e ha ringraziato. Direi che non ci sono stati grandi discorsi, ma è emerso il cuore; ciò che diceva, gli sgorgava dal cuore e non dalla penna.
Anche nel nuovo incarico di Patriarca lavorerà – come in precedenza da vescovo – per l’unità dei cristiani caldei?
Il valore dell’unità è necessario per i cristiani e per il tutto il Paese, perché non si può promuovere l’unità di un gruppo se tutti gli altri sono divisi. Certo è che una visione comune fra i cristiani può aiutare ed essere funzionale all’unità della nazione. Se saremo un solo corpo, con una posizione unitaria, potremo anche diventare un ponte per aiutare gli altri all’unità e al dialogo. I recenti attacchi nel Paese, gli attentati a Kirkuk, Mosul e Baghdad sono di matrice politica; per questo li ho sempre voluti condannare con forza. Anche perché, come avvenuto nei giorni scorsi nel nord (attentato a Kirkuk contro una sede della polizia con decide di vittime, ndr) in tutte le stragi sono sempre le persone innocenti le prime a morire.
Altro problema annoso, l’esodo dei cristiani: qual è la situazione e cosa intende fare per arginarlo?
La situazione è critica e, ancora oggi, resta molto difficile. In questi giorni ho ricevuto moltissimi telegrammi: dal capo dello Stato, dal governo, dai ministri, dal presidente del Parlamento, dai leader religiosi musulmani (sunniti e sciiti) e tutti concordano nel dire che bisogna fare qualcosa per fermare o almeno frenare l’esodo dei cristiani. In questi giorni a Roma abbiamo fatto due incontri con tutti i vescovi presenti, parlando delle vie percorribili per frenare nel concreto questo esodo.
Prima di tutto è necessario andare a visitare e aiutare questi profughi in Siria, Libano, Giordania e Turchia. Al contempo, bisogna cercare un punto di incontro con i responsabili del governo del Kurdistan e stabilire condizioni in base alle quali i cristiani potranno tornare nella loro terra. Le premesse necessarie sono il fatto di fornire loro una casa, il lavoro, le scuole, le infrastrutture; tutto questo serve. E poi restituire loro fiducia nel Paese, perché è proprio questo ciò che la gente ha perso: fiducia e speranza.
Quali direttive vuole dare da Patriarca alla Chiesa irakena: quali riforme sono urgenti e necessarie?
Prima di tutto la liturgia, che è un caos nella Chiesa Caldea. Prendiamo, ad esempio, la messa: ogni diocesi ha il suo messale, ogni prete celebra in una maniera diversa dall’altro. Avere una liturgia comune e riformata, unica per tutta la Chiesa … questo è un progetto al quale tengo molto. Con questo non voglio dire che no ci saranno libertà per le singole diocesi, ma su un punto non si può prescindere: che vi sia la medesima messa a Baghdad, a Kirkuk, nel Kurdistan e anche in tutta la diaspora caldea nel mondo. Se anche è tradotta nella lingua nazionale o locale non ci sono problemi, purché rimangano delle norme liturgiche da rispettare; anche questo diventa un elemento di unità.
Come dice San Giovanni Crisostomo, “la liturgia è per l’uomo” e non è l’uomo che deve restare subordinato alla liturgia. Vi è un movimento fra noi che vuole che la liturgia sia rigida, come se fosse la “Parola di Dio”, ma non è così! Dunque, la riforma o, per meglio dire, l’aggiornamento è assolutamente necessario affinché la gente possa capire cosa avviene durante la celebrazione, che resta una festa, e i fedeli devono poterla comprendere appieno.
In tema di rapporti con l’islam, intende proseguire il cammino di dialogo avviato a Kirkuk?
Nel nord abbiamo avviato un dialogo intenso, non dimenticherò gli anni trascorsi a Kirkuk e il lavoro svolto, anche se ora il mio nuovo incarico mi porterà a Baghdad. Dalla capitale cercherò di dialogare col governo, mettere insieme sciiti, sunniti, curdi, arabi e turcmeni. Sono molto deciso ad aprire un dialogo con le autorità e i vertici di Baghdad, che hanno un peso maggiore rispetto ai leader di Kirkuk. Il terreno è preparato: loro mi hanno fatto gli auguri tramite televisione ed email, penso che sia possibile un dialogo disinteressato, schietto e sincero. Perché c’è anche da parte loro amore e rispetto. Oltre alla consapevolezza che noi cristiani siamo in Iraq anche per i nostri fratelli musulmani. La religione è una cosa, mentre la cittadinanza è altro e diverso dalla fede.
Sarà possibile arrivare, un giorno, al concetto di “laicità dello Stato” anche nei Paesi musulmani?
Penso che sia molto difficile, perché hanno una concezione negativa e peggiorativa dello Stato laico, rispetto alla accezione che si dà nell’Occidente. Esso viene in qualche modo percepito come un annullamento ed equivale, in buona sostanza, ad uno Stato ateo che non è concepibile né ammissibile. Forse una società civile che rispetta la religione, senza mescolarla con la politica, potrebbe costituire un punto di forza.
Beatitudine, in questo “Inverno arabo” come lo ha definito lei di recente, quali prospettive emergono per il Medio oriente e i Paesi arabi?
All’inizio si è prospettata la possibilità di una Primavera araba per tutti, fatta di libertà, progresso, felicità e un cambiamento netto anche nella politica. Tuttavia, non si è trattato di un movimento organizzato e altri ne hanno approfittato. Ora l’obiettivo è creare nazioni e Stati fondati sulla Sharia, la legge islamica, ma è un’idea anti-storica: non è possibile vivere in uno Stato religioso, che considera tutti uguali nell’osservanza dell’unica fede, in un’epoca di pluralismo e di affermazione di anime diverse. Non è possibile annichilire la diversità sotto un unico manto dettato dalla religione. Resta il fatto che questa Primavera sognata dai promotori diventa sempre più un “terribile inverno”.
Quindi la vera sfida consiste nel far dialogare le diversità…
Penso che coloro che vogliono uno Stato musulmano come nel VII secolo si sbagliano, perché non è possibile. Se sono sinceri con lo spirito dell’islam, devono distinguere – come hanno fatto i cristiani nel tempo – il messaggio, l’essenziale per la gente di oggi, dai canoni, dalla legge. Il messaggio è una cosa, la norme dettate dalla Sharia invece sono tutt’altro. Queste leggi che erano buone per la gente del VII° secolo, oggi non funzionano più e non si possono applicare allo stesso modo. Deve invece restare il messaggio, il senso che dà alla nostra vita e non i sistemi che finiscono per soffocare le libertà.
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