Israele divisa (e sospesa) fra nuove elezioni e il ritorno di Netanyahu
Il Paese si avvia verso il quinto voto in poco più di tre anni. Domani il passaggio che dovrebbe sancire lo scioglimento della Knesset. Da dietro le quinte l’ex premier muove per tornare al potere, in questa o nella prossima legislatura. Rabbino pacifista: l’esecutivo Bennett non ha fatto alcun progresso su “grandi questioni” come “occupazione e processo di pace”.
Milano (AsiaNews) – Israele si avvia verso la quinta elezione parlamentare in poco più di tre anni, dopo il crollo della coalizione emersa in seguito al voto del 23 marzo 2021. Una maggioranza nata con numeri risicati – 60 deputati favorevoli, 59 contrari e un (decisivo) astenuto sui 120 della Knesset -, formata da partiti di ispirazione diversa e che aveva come unico (o quasi) collante l’opposizione a Benjamin Netanyahu. Il 22 giugno scorso i deputati hanno approvato in lettura preliminare lo scioglimento dell’assemblea, primo passo verso nuove elezioni. Ieri si è consumato uno stallo, condito da fitti quanto vani negoziati fra maggioranza e opposizione, alternati a giochi di palazzo per procrastinare l’iter giuridico di fine legislatura. Ciononostante, a fine giornata è arrivata la comunicazione secondo cui il voto decisivo si dovrebbe svolgere domani.
Dietro le quinte alcune forze parlamentari hanno operato nel tentativo di dar vita a una coalizione alternativa. Fra i più attivi – assieme a Bezalel Smotrich, guida del Religious Zionist Party – vi è Moshe Gafni, del partito ultra-ortodosso United Torah Judaism, che muove col Likud per scongiurare il voto in autunno. Una scelta, spiega una nota del partito, nata dopo “consultazioni” fra lo stesso Gafni e il leader spirituale Rabbi Gershon Edelstein. Tuttavia, se il progetto non dovesse andare a buon fine – come probabile – la soluzione è “il ritorno alle urne”. Anche in questo caso vi è però una frattura profonda fra maggioranza e opposizione: la coalizione uscente vorrebbe votare l’8 novembre, mentre il fronte filo-Netanyahu spinge per il 25 ottobre o una data vicina alle festività ebraiche. Per nuove elezioni si è espresso il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz, che dice di “fare di tutto” affinché il Paese vada al voto secondo le scadenze prefissate.
“Questa nuova situazione di crisi – sottolinea ad AsiaNews Jeremy Milgrom, rabbino israeliano e membro dell’ong Rabbis for Human Rights – non stupisce, siamo di fronte alla prospettiva di nuove elezioni e il sentimento prevalente è quello di stanchezza. Una parte del Paese è insofferente e preoccupata per la prospettiva di un ritorno al potere di Netanyahu, ma resta il fatto che egli abbia ancora molto sostenitori ed è pur sempre una personalità forte”. Egli aggiunge che il limite di Bennett è forse il “suo essere poco carismatico e alla guida di una coalizione sin troppo ampia, pur non essendo molto distante dall’ex primo ministro sul piano ideologico. La sua è stata un’occasione persa, perché la presenza di un partito arabo al governo poteva costituire un elemento positivo”, ma l’esperienza è naufragata troppo presto e senza risultati tangibili.
Una coalizione fragile
Da settimane la coalizione di governo, che racchiude elementi di destra, centro e sinistra, oltre al partito arabo Ra’am, registrava tensioni e fibrillazioni interne. Da qui la decisione dei due leader Naftali Bennett e Yair Lapid di serrare i tempi e presentare la mozione di scioglimento alla Knesset, per avviare l’iter che porterà il Paese ad elezioni anticipate. L’esecutivo di transizione, chiamato a garantire lo svolgimento dell’ordinaria amministrazione fino alle urne, dovrebbe essere guidato da Lapid, leader del partito liberare Yesh Atid e ministro degli Esteri uscente, come previsto dagli accordi che hanno portato alla nascita della prima maggioranza dopo un decennio dl potere di Netanyahu. Secondo la legge, per la dissoluzione del Parlamento monocamerale con sede a Gerusalemme servirebbero tre votazioni plenarie e una revisione della commissione alla Camera, sebbene vi siano forze che stanno temporeggiando per dare ai deputati il tempo di far nascere un’alternativa di governo. Guidata, manco a dirlo, dallo stesso Netanyahu che ha già bollato l’esecutivo uscente come il “peggiore” della storia di Israele.
Fin dalle prime mosse il tandem Bennett-Lapid ha palesato difficoltà di tenuta per evidenti contraddizioni interne che, col passare dei mesi, sono andate aumentando. Scontri ideologici – la “disfida sugli azzimi” solo per citarne una – si sono concretizzati nell’uscita dalla maggioranza di alcuni parlamentati di Yamina, vicini alla destra, ma pure dal partito arabo sono giunte minacce di abbandono in segno di protesta, dopo le violenze alla spianata delle Moschee durante il Ramadan. A sancire la probabile fine della legislatura sarebbe stata però la bocciatura della legge sui coloni: una norma “speciale” per i territori che rischia di innescare una nuova escalation della tensione e osteggiata da una parte della coalizione, in particolare da Mansour Abbas (Ra’am). Essa estende il diritto civile israeliano ai coloni ed è prorogata ogni quinquennio a partire dagli anni ‘70, sancendo una sorta di apartheid fra israeliani e palestinesi nello stesso territorio. Da sottolineare la posizione della destra di Netanyahu che, pur essendo favorevole alla legge e pur avendola rinnovata più volte in passato, ha votato contro per dare una ulteriore spallata all’esecutivo.
In questi mesi, spiega Jeremy Milgrom, il Likud “ha manovrato per tornare al potere, manipolando alcuni membri del partito di Bennett, che hanno tenuto un atteggiamento ambivalente. Questi ultimi – prosegue – hanno subito pressioni molto forti per lasciare l’esecutivo, del resto anche l’attuale primo ministro ha tradito almeno in parte il proprio elettorato formando una maggioranza con il partito arabo”. Per quanto riguarda l’ex premier Netanyahu è evidente “il suo desiderio di tornare subito al potere e, in fondo, è lui che ha vinto le ultime elezioni, ma l’ipotesi più plausibile è quella dello scioglimento della Knesset e voto in autunno”.
Un Paese lacerato alle urne
Preso atto della mancanza di una maggioranza per votare la norma “pro-coloni”, Bennett ha prospettato lo scioglimento della Knesset, per il quale è sufficiente un voto a maggioranza semplice. In caso di avvio dell’iter, il premier darà le dimissioni e proporrà come successore Lapid per gli affari correnti. Intanto muove le sue pedine Netanyahu che, da un lato, guarda a possibili alleanze già in questa legislatura con l’ala sionista/religiosa e fuoriusciti di Yamina, per tornare al potere e garantirsi uno scudo dai processi per truffa e corruzione in cui è imputato. Al contempo, egli non disdegna la prospettiva del voto sapendo che pur essendo divisivo mantiene un ampio – ma non sufficiente per governare in autonomia – consenso nell’elettorato.
Le divisioni all’interno della (ex) coalizione rischiano poi di trascinarsi anche in fase di campagna elettorale, laddove non è chiaro se le diverse formazioni vorranno cercare un nuovo punto di contatto e rilanciare l’esperienza governativa. E che si è rivelata in gran parte fallimentare, fatta eccezione per l’approvazione – prima volta nell’ultimo triennio – della legge di bilancio 2021. Quel che emerge in una nazione dal panorama politico fluido e caratterizzato da alternanza delle alleanze, spiegano analisti e commentatori, è il ruolo di primo piano del Likud retaggio di un consenso che lo indica ancora come primo partito. Gli ultimi sondaggi gli assegnano fino a 35 seggi (sui 61 necessari per governare), con buona pace di quanti un anno fa decretavano la fine dell’era Netanyahu. “Questa esperienza – sottolinea Milgorm – sembra destinata a concludersi” ed è difficilmente proponibile come alleanza in vista del voto. “Bisogna capire – prosegue – dove punterà l’elettorato arabo e come si muoverà il partito islamico. Certo è che questo governo, seppur diverso nei toni e dialogico rispetto ai precedenti, non ha fatto alcun progresso sulle grandi questioni come l’occupazione e il processo di pace [con i palestinesi]. Al contempo, la prospettiva di un ritorno di Netanyahu appare più brutale anche perché alle sue spalle vi sono movimento come Haredi [ebrei ultra-ortodossi, oggi all’opposizione], che sfruttano un laico come lui per tornare al governo e avere pieno controllo su budget e finanze”.
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