MYANMAR – (1 Febbraio 2021)

Soldati schierati al Parlamento di Naypydaw (AFP or licensors)

 

Colpo di Stato in Myanmar: arrestata Aung San Suu Kyi

Il capo delle forze armate assume tutti i poteri nel Paese denominato Myanmar, ex Birmania, e la leader del partito di maggioranza viene arrestata. In un comunicato, il segretario generale dell’Onu, Antònio Guterres, condanna “fermamente” l’arresto di Aung San Suu Kyi e di altri leader politici e parla di duro colpo per le riforme democratiche

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’annuncio in TV: stato di emergenza per un anno. Il primo atto è stato arrestare il capo del governo di fatto, Aung San Suu Kyi,  leader della Lega nazionale per la democrazia (LND) che a novembre ha vinto in modo schiacciante le elezioni legislative. I militari da diverse settimane parlavano di irregolarità.  La leader, che ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1991, ma che a livello internazionale è stata moto criticata per la questione della minoranza denominata rohingya, resta molto amata nel Paese proprio per la sua battaglia politica di anni contro il potere assoluto della giunta militare che – di fatto, dopo aver governato per mezzo secolo – è stata sciolta già dopo le prime elezioni vinte dalla Lega nel 2011. Ma, tra alterne vicende, l’esercito, ha mantenuto il controllo su tre ministeri chiave: quello dell’Interno, quello della Difesa e quello dei Confini. Ora il capo delle forze armate, generale Min Aung Hlaing, ha assunto tutti i pieni poteri alla vigilia della prima seduta del primo parlamento, uscito dalle elezioni di novembre, vinte dal partito di Aug San Suu Kyi. E il generale Myint Swe, che era uno dei vice presidenti, è diventato presidente ad interim.  Tra le prime decisioni adottate c’è la chiusura di tutte le banche del Paese, da oggi fino a nuovo ordine; sospesi anche i servizi di prelievo automatici.

L’appello per la pace del Papa

Nel suo viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh dal 26 novembre al 2 dicembre 2017 Papa Francesco ha parlato di pacificazione sottolineando che la pace nazionale passa attraverso il  rispetto dei diritti umani.

Gli Stati Uniti “continuano ad affermare il loro forte appoggio alle istituzioni democratiche”  e “in coordinamento con i nostri partener nell’area, chiediamo alle forze armate e a tutte le altre” parti in causa “di aderire alle norme democratiche e di rilasciare i detenuti”. Lo afferma la Casa Bianca, sottolineando che il presidente, Joe Biden, è stato informato sugli eventi, incluso l’arresto di Aung San Suu Kyi.   Gli Usa, “allarmati” dalle informazioni che arrivano,  si oppongono a ogni tentativo di alterare il risultato delle recenti elezioni o impedire una democratica transizione”.

La questione della minoranza nello Stato di Rakhine

Nel 2016 è scoppiata la questione della minoranza musulmana in fuga verso il Bangladesh in condizioni disumane. Parliamo di una minoranza che vive nello stato di Rakhine nota come rohingya  al confine con il Bangladesh. La loro origine è molto discussa: alcuni li ritengono indigeni dello Stato di Rakhine, mentre altri sostengono che siano immigrati musulmani che, in origine, vivevano in Bangladesh. Si sarebbero spostati in Birmania durante il periodo del dominio britannico.  Secondo la legge sulla cittadinanza risalente al 1982, i Rohingya non fanno parte delle 135 etnie riconosciute dallo stato e non hanno pertanto diritto alla cittadinanza birmana. Prima delle repressioni del 2016/2017 vivevano nel Paese circa un milione di persone; a dicembre 2017 circa 625 mila  di loro si sono rifugiati in campi profughi in Bangladesh. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, sono una delle minoranze più perseguitate nel mondo.

Proprio in quegli anni San Suu Kyi è stata fortemente criticata a livello internazionale quale leader di fatto nel Paese anche se nel ruolo di ministro degli Esteri. E’ stato lungo il suo silenzio iniziale poi interrotto a settembre 2017 quando  ha detto che il suo Paese era pronto a una “verifica internazionale” su come il governo avesse gestito la crisi della minoranza musulmana nel Paese buddista e a verificare lo status dei 410 mila rifugiati in Bangladesh. Subito la Missione internazionale d’inchiesta sul Myanmar del Consiglio Onu dei diritti umani ha chiesto un accesso illimitato al Paese ed un’estensione del proprio mandato per poter stabilire in un rapporto “fatti e circostanze” delle violazioni dei diritti umani ed abusi nel Paese, in particolare nello Stato Rakhine.

La crisi di fine anni Ottanta

Fino al 1989 il Paese si chiamava Birmania, poi si decise per il nome Myanmar. Alla fine degli anni Ottanta entrò in una grave crisi economica alla quale seguì il caos totale e un colpo di Stato. Migliaia di persone morirono durante gli scontri. La giunta militare al potere fece numerose modifiche alla Costituzione che era stata approvata nel 1974 e annunciò nel 1989 le elezioni per l’anno successivo, vinte poi dai partiti di opposizione tra cui la Lega Nazionale per la Democrazia, guidata da Aung San Suu Kyi e U Tin U. Il risultato del voto non fu però rispettato: la giunta militare non permise a San Suu Kyi e al suo partito di governare e lei rimase agli arresti domiciliari per anni. Il Paese diventò Unione di Myanmar, abbreviato in Myanmar. La giunta corresse anche i nomi di molti altri posti, spiegando di voler prendere le distanze dai nomi in vigore nel periodo coloniale britannico, durato più di un secolo a partire dal 1824.

Il testo originale e completo si trova su:

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-02/birmania-myanmar-colpo-di-stato-militari-potere-lega-san-suu-kyi.html

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