Nadia, testimone della catastrofe
di Chiara Zappa | 5 ottobre 2018
Il Nobel per la pace 2018 è stato assegnato al medico congolese Denis Mukwege e alla giovane yazida Nadia Murad per il loro impegno contro le violenze sessuali in guerra. I nostri lettori già conoscono Nadia…
Il prossimo 10 dicembre il medico congolese Denis Mukwege e la giovane yazida Nadia Murad riceveranno il Premio Nobel per la pace 2018 per il loro impegno contro il ricorso allo stupro e alle violenze sessuali nei conflitti. L’annuncio ufficiale è stato dato questa mattina, 5 ottobre 2018, ad Oslo, capitale della Norvegia. Per i lettori di Terrasanta.net e della rivista Terrasanta, quello di Nadia Murad è un nome familiare. Abbiamo avuto modo di parlarne in varie occasioni. L’ultima volta in un articolo all’interno del Dossier di 16 pagine dedicato alle minoranze in Medio Oriente pubblicato nel numero di maggio-giugno 2018 di Terrasanta. Ve lo riproponiamo qui.
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Era l’estate del 2014 e Nadia Murad aveva ventun anni. Era una ragazza solare e spensierata, e nonostante le ristrettezze economiche con cui la sua numerosa famiglia doveva fare quotidianamente i conti per tirare avanti in un piccolo villaggio rurale nel nord dell’Iraq, Nadia coltivava speranzosa i suoi progetti per il futuro.
Mentre insieme ai fratelli passava ore nei campi a raccogliere le cipolle da vendere al mercato, sognava di finire gli studi e aprire un salone da parrucchiera dove avrebbe acconciato sontuosamente le spose nel loro giorno più speciale. In un armadio della camera che condivideva con le sorelle Adkee e Kathrine conservava come una reliquia un album dove aveva raccolto le fotografie scattate ai matrimoni celebrati in paese: una carrellata di pettinature elaborate e perfette da cui avrebbe tratto ispirazione per il suo lavoro.
Oggi, quell’estate sembra un secolo fa. Perché Nadia, viso pulito che ha conservato, nonostante tutto, qualcosa dell’innocenza dei bambini, ha avuto la sorte terribile di sperimentare sulla sua pelle la folle barbarie del califfato nero, quando nel luglio di quattro anni fa i militanti del sedicente Stato islamico, che stavano allargando la propria presenza in Siria e nella regione settentrionale dell’Iraq, spuntarono con il loro minaccioso convoglio di camion all’orizzonte del villaggio di Kocho. Quando Nadia e i suoi fratelli li scorsero a distanza, capirono subito che la loro vita sarebbe stata sconvolta per sempre.
Kocho, non lontano dal monte Sinjar, faceva parte di quell’area del Paese abitata da 400 mila yazidi, un antico popolo che si identifica con una religione non legata all’islam, conservata intatta per molti secoli nonostante la diffidenza del mare musulmano che la circondava.
La fede era parte della vita quotidiana per la comunità. Già dalla mattina presto, quando ci si rivolgeva al sole nascente e si recitava la preghiera di ringraziamento a Dio, che si manifesta tramite il calore dei raggi. Nadia ricorda i colori vividi delle uova decorate ogni anno, ad aprile, per il Charshama Sor, il «Mercoledì rosso» del Capodanno, e l’atmosfera mistica della valle di Lalish, nelle montagne tra Duhok e Mosul, sede del solenne pellegrinaggio autunnale: sette giorni di celebrazioni, riti suggestivi, preghiere e nuove amicizie con i coetanei giunti da altri villaggi. A sedici anni, lì era stata immersa nelle acque della sorgente sacra Zemzem per il suo battesimo.
Gli yazidi, che fanno risalire la loro fede ai tempi stessi della creazione del mondo, venerano questa valle in cui sorge il suggestivo santuario dalle cupole coniche perché è proprio qui che, secondo la tradizione, Khude, il Dio inconoscibile, inviò sulla Terra l’Angelo pavone, Tawusi Melek, per far nascere la vita dal caos e operare da messaggero tra l’uomo e il suo Creatore. Secondo il Mishefa Reş, uno dei due testi sacri della comunità, Dio intimò a Tawusi Melek di non prostrarsi ad altri all’infuori di Lui. Poi, dopo aver creato l’uomo dalla polvere, mise alla prova gli angeli ordinando loro di inchinarsi ad Adamo, ma il pavone rifiutò. Per gli yazidi la conferma suprema della sua fedeltà a Khude. Per i vicini musulmani, invece, la prova che questa pacifica comunità, era seguace dell’angelo caduto, Shaytan il tentatore. Adoratori del diavolo.
È da questa terribile nomea che hanno origine secoli di discriminazioni e ripetuti genocidi: esattamente 72, secondo i racconti tramandati di padre in figlio, disseminati in una storia lunghissima e travagliata. Che ora, nell’Iraq preda di rinnovate divisioni etniche e religiose, minacciava di ripetersi per l’ennesima volta.
«Nelle comunità sunnite si andò diffondendo l’odio nei nostri confronti. Forse era sempre stato lì, appena sotto la superficie. Adesso era uscito alla luce del sole e dilagava in fretta», ricorda Nadia. Il nome e il volto di questa giovane donna che mai avrebbe immaginato di lasciare l’Iraq oggi sono noti in tutto il mondo, perché Murad fa parte delle pochissime, tra le settemila ragazze e perfino bambine yazide rapite e ridotte a sabaya, schiave sessuali dell’Isis, che una volta riuscita a fuggire ha deciso di diventare una testimone della catastrofe abbattutasi sul suo popolo. Ha parlato pubblicamente non solo dei suoi sei fratelli e della mamma massacrati dai macellai dell’Isis ma anche delle torture e degli stupri sistematici subiti, è diventata ambasciatrice di buona volontà dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani, ha ricevuto il premio Sakharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero ed è stata candidata al Nobel per la pace.
E i suoi desideri sono forzatamente cambiati, come racconta nel libro scritto con la giornalista Jenna Krajeski e da poco uscito in Italia per Mondadori: L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis (prefazione di Amal Clooney, pagg. 334, euro 20).
«Sogno che un giorno tutti i militanti risponderanno dei loro crimini, non solo i capi come Abu Bakr al-Baghdadi, ma tutte le guardie e i proprietari di schiave, ogni uomo che abbia premuto un grilletto e spinto i corpi dei miei fratelli nelle fosse comuni, ogni combattente che abbia tentato di fare il lavaggio del cervello ai ragazzini inducendoli a odiare le loro madri per il fatto che erano yazide, ogni iracheno che abbia accolto i terroristi nella propria città e li abbia aiutati».
Nadia Murad ha scelto di raccontare la sua storia per far conoscere a quante più persone possibile le violenze vissute e quelle di cui è stata testimone, ma anche per cercare di farne comprendere le origini, delineare il contesto geopolitico in cui si sono scatenate e, non da ultimo, denunciare connivenze e responsabilità parallele.
«Presto ci era giunta notizia che molti degli arabi sunniti nostri vicini avevano accolto i militanti e si erano addirittura uniti a loro – racconta –, bloccando le strade per impedire agli yazidi di mettersi in salvo, per poi saccheggiare i villaggi deserti insieme ai terroristi. Ma eravamo ancora più sconvolti dai curdi che avevano giurato di proteggerci: senza alcun preavviso, i peshmerga erano fuggiti dal Sinjar prima che i militanti dell’Isis li raggiungessero».
Inizia così l’inferno della giovane: rapita, venduta al mercato delle schiave, finita nelle mani di un giudice riverito quanto brutale nei confronti della sua preda, passata di mano in mano ad altri militanti, violentatori seriali.
«A un certo punto non resta altro che gli stupri», constata drammaticamente. «Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Non avere più speranze è quasi come morire». Eppure, riflette, «la morte non era arrivata. Nel bagno del posto di blocco scoppiai a piangere. Per la prima volta da quando avevo lasciato Kocho credetti davvero di morire. Ed ebbi la certezza di non volerlo».
È proprio questo ostinato attaccamento alla vita che un giorno, tre mesi dopo il suo rapimento, spinge Nadia ad aggrapparsi alle poche energie residue e, vincendo il panico, approfittare di una svista del suo aguzzino per fuggire. Vaga come in trance in una Mosul sospesa nel terrore, finché si decide a bussare a una porta qualunque. Inaspettatamente, la famiglia (sunnita) che aprirà quella porta la ospiterà e l’aiuterà a fuggire nel Kurdistan iracheno. Seguirà il ricongiungimento con i fratelli superstiti e l’opportunità di andare in Germania come rifugiata, dove Nadia Murad è diventata un’attivista a fianco della ong Yazda.
Non solo questa giovane coraggiosa ha ritrovato la propria voce, ma è diventata voce per il suo popolo, che i fondamentalisti avevano cercato di ridurre al silenzio. Insieme ad alcune altre ragazze sopravvissute allo stesso incubo e alla sua assistente legale Amal Clooney ha lottato senza risparmiarsi affinché i responsabili delle violenze fossero chiamati a risponderne davanti alla giustizia. Uno sforzo che, recentemente, ha infine prodotto il primo risultato tangibile: il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha infatti adottato una risoluzione importantissima, istituendo un team investigativo con il compito di raccogliere le prove dei crimini perpetrati dall’Isis in Iraq. Significa che le prove stesse, a rischio di essere cancellate, verranno invece conservate e che i singoli membri del califfato nero potranno essere processati.
Intanto, Nadia Murad può finalmente cercare un po’ di pace per sé stessa. Iscriversi a un corso di estetista, per realizzare il suo sogno di ragazzina, e magari crearsi una famiglia, come alcune ex schiave hanno già fatto.
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