SARAJEVO – ( 26 Aprile )

SARAJEVO VENTI ANNI DOPO
 
“Non ci fanno costruire le nostre chiese”

Le parole dell’arcivescovo di Sarajevo, cardinale Vinko Puljic, alla 36ª Convocazione nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo in corso a Rimini. Dopo aver ricordato la resistenza della fede grazie alla forza della famiglia cristiana e le difficoltà di convivenza con gli islamici, il presule ha sollecitato l’Europa ad intervenire “a livello politico ed economico per creare uno Stato in cui siamo tutti uguali”
dal nostro inviato Daniele Rocchi

 
La croce pettorale fatta con le schegge di bombe cadute nel corso della guerra del 1994, “cinque pezzi come le piaghe del Cristo”, uniti insieme per comporre lo “strumento di salvezza dell’umanità”: la vita e la missione dell’arcivescovo di Sarajevo, il cardinale Vinko Puljic, possono essere riassunte in questo simbolo, che è anche la parafrasi della storia della sua terra, la Bosnia-Erzegovina. Due vite annodate, come ha raccontato, ieri sera, al popolo del Rinnovamento nello Spirito Santo riunito a Rimini per la sua 36ª Convocazione nazionale, e guidate dallo Spirito Santo.

Un baluardo contro la dittatura. “La Bosnia-Erzegovina è stato un Paese segnato da difficili esperienze storiche – ha esordito il cardinale – già nel 1463 è caduta sotto l’impero Ottomano e questa occupazione è durata 400 anni. Prima dell’arrivo degli Ottomani, il regno di Bosnia ed Erzegovina era abitato dai cattolici. Con l’occupazione tanti sono fuggiti impauriti, molti sono rimasti – e a loro dobbiamo rendere omaggio perché hanno salvato la fede con il sostegno dei frati francescani. Sotto la forte pressione ottomana molti altri si sono convertiti all’Islam. Siamo sopravvissuti agli avvenimenti dolorosi della Prima e della Seconda guerra mondiale e poi è arrivato il comunismo”. Ma cosa ha permesso la sopravvivenza della nazione in questo cammino così difficile e doloroso? Il cardinale non ha dubbi: “la cosa più importante è stata la famiglia e la fede che si è mantenuta al suo interno. Essa si è alimentata con continue preghiere. Questa è stata anche la forza delle vocazioni spirituali”. Famiglia come nido della vocazione per tanti giovani e baluardo contro la dittatura.

Dagli occhi dei genitori. Pulijc stesso ne è un chiaro esempio: “la mia famiglia è numerosa. Io sono il dodicesimo figlio, nato alla fine della Seconda guerra mondiale. Anche se sono cresciuto in tempi di crisi, quando non erano sufficienti né pane né indumenti, tanto amore e l’unità familiare sono stati due elementi che non ci mancavano mai; direi che sono per un bambino le cose più importanti. Nella nostra casa dimorava sempre la Parola di Dio. Questa confidenza nella Parola, che i miei genitori avevano, ha trasmesso sicurezza a noi bambini”. Crescere nell’amore “pregando ogni giorno e dialogando tra membri della famiglia. In quel periodo non esisteva il catechismo, né parrocchiale né scolastico, perché il sistema comunista non lo permetteva, ma la fede, l’ho assorbita dagli occhi dei miei genitori”. L’ordinazione sacerdotale nel 1970, quella episcopale, il 6 gennaio 1991 a Roma, poco prima della guerra in ex Jugoslavia, per le mani del Beato Giovanni Paolo II, sono state le conseguenze di questa storia familiare.

Il periodo della guerra. Poco prima della guerra in Bosnia ed Erzegovina c’erano circa 820mila cattolici in quattro diocesi. L’arcidiocesi di Sarajevo era la più grande, con 528mila cattolici in 150 parrocchie. Nell’aprile del 1992 inizia la guerra a Sarajevo che poi si è diffusa in tutto il Paese. Decisi di rimanere nella sede dell’arcidiocesi. La città era diventata un carcere, circondata e bloccata da tutte le parti, mentre dai monti era sempre bombardata con i cecchini che sparavano dall’altra parte del fiume. Siamo rimasti senza energia elettrica, senza acqua, senza riscaldamenti, mentre i rifornimenti alimentari ogni giorno diminuivano. La paura era dappertutto. Ogni giorno guardavo il sangue e i morti, udivo le grida delle persone impaurite. C’era bisogno di consolare, incoraggiare e alzare la voce contro l’ingiustizia e la morte, per difendere la gente. Per poter fare questo occorreva molta preghiera. Senza lo Spirito di Dio non c’è né forza né speranza”.

La lezione della preghiera. Sono passati venti anni ed oggi, per il cardinale, è ancora difficile descrivere il significato di tutti questi eventi. “Nei quattro anni che è durato l’assedio di Sarajevo ho vissuto con il popolo che è a maggioranza islamica. Ma si guardavano le persone e non le altre cose. Tante volte sono uscito dalla città per visitare e incoraggiare i sacerdoti – che si trovavano in altre zone ugualmente colpite dalla guerra, per dare le informazioni sulla situazione che si viveva dentro il Paese e nella città di Sarajevo. In quel periodo di guerra ho potuto sperimentare il significato di quella fede che ho ereditato dai genitori. La fiducia in Dio in ogni situazione. Per poter alimentare questa fede si doveva pregare molto, da solo, insieme con i sacerdoti e in comunità con i giovani”.

Ricominciare dalla cenere. Durante la guerra l’Arcidiocesi è stata distrutta. Dei 528mila fedeli ne sono rimasti circa 190mila. Nel territorio dell’arcidiocesi sono state distrutte circa 600 tra chiese e strutture ecclesiastiche. Ma non ci siamo abbattuti e con grande fiducia in Dio abbiamo aperto le scuole interetniche per l’Europa dove si forma nei giovani lo spirito di tolleranza e di convivenza pacifica. Abbiamo ricostruito il seminario, perché senza i sacerdoti la Chiesa non può sopravvivere. La Caritas ha sviluppato l’attività di aiuto ai profughi”. Guarire dalla guerra è possibile grazie alla famiglia. Il messaggio è che “Dio guida la sua Chiesa”.

Le difficoltà dell’oggi. Sono passati due decenni ma difficoltà ancora permangono, in particolare, ha detto il porporato, “in Bosnia Erzegovina è difficile costruire chiese. Dopo 14 anni non ho ancora ricevuto un permesso per costruire una chiesa mentre tante moschee hanno visto la luce”. E questo “nel silenzio della comunità internazionale che non vuole intervenire per i cattolici”. L’Europa – ha affermato il cardinale – deve entrare con più forza in Bosnia Erzegovina, a livello politico ed economico per creare uno Stato in cui siamo tutti uguali. In Bosnia la disoccupazione è al 46%”. L’arcivescovo ha inoltre puntato l’indice sulle divisioni interne al Paese “una parte del quale è abitata dai serbi e nella quale si è realizzata la pulizia etnica. In quest’area mancano all’appello 200mila cattolici e non è possibile per loro farvi ritorno. La comunità internazionale non fa nulla per cambiare questo stato di cose. Nell’altra zona, noi cattolici siamo insieme ai musulmani ma non godiamo dell’uguaglianza senza la quale non è possibile creare una pace stabile. Purtroppo, quando ci sono problemi per i cattolici, la comunità internazionale tentenna”.

 
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