SIRIA – ( 2 Ottobre )

PROFUGHI SIRIANI
 
La Caritas Giordania condivide tutto
Anche le lacrime

Dai racconti raccolti dai volontari emerge un quadro sconvolgente di sofferenze e privazioni. Questo Paese oggi ospita 570mila siriani in fuga. I più poveri (132mila) sono ospiti nel campo di Zaatari, tutti gli altri sono sparsi nel territorio. Wael V.Suleiman, direttore esecutivo di Caritas Giordania: “Vogliamo considerarli come ospiti e farli sentire a casa”. Ma non ci si nasconde le gravi difficoltà economiche
dall’inviata Sir in Giordania, Patrizia Caiffa

 
Dozzine di donne con veli integrali neri entrano ed escono dalle stanze di Caritas Giordania dove si registrano i profughi siriani. Si muovono in gruppo, per proteggere sé e le figlie dalle molestie. Sono tutte donne sole, i mariti sono morti o rimasti in Siria a combattere. Alcune portano con sé i neonati. Gli altri 5 o 6 figli rimangono in strada a giocare o a lavorare, vendendo piccoli prodotti come caramelle o bibite per portare a casa 5 dinari al giorno. Nelle città di Zarqa e Mafraq, non lontano dal confine con la Siria, i giordani hanno fatto affari d’oro, affittando case e garage al doppio del prezzo: i prezzi possono andare dai 100 ai 250 dinari. Il denaro per pagare l’affitto, oltre al latte e ai pannolini, è la richiesta più frequente nei due centri di Caritas Giordania. Caritas italiana li sta aiutando nell’ambito dell’emergenza Siria, che ha raccolto solo 150mila euro nonostante due anni di guerra e 110mila morti. Ne ha stanziati 550mila per aiutare le Caritas medio-orientali che li accolgono. A breve partirà un progetto per bambini disabili nel centro N.S. della Pace ad Amman. L’intera rete di Caritas internationalis ha messo a disposizione oltre 15 milioni di euro per gli aiuti alla Siria.

“Farli sentire a casa”. In Giordania sono oggi 570mila i siriani (su 2 milioni di rifugiati e 4 milioni di sfollati interni), di cui 132mila, i più poveri, al campo di Zaatari. “La maggior parte sono sparsi sul territorio – spiega Wael V.Suleiman, direttore esecutivo di Caritas Giordania, con un piglio organizzativo quasi tedesco – perciò abbiamo deciso di sfruttare il radicamento della Chiesa tra la gente, per assisterli meglio. Non vogliamo seguire i protocolli umanitari standard. Vogliamo considerarli come ospiti e farli sentire a casa”. I profughi vivono di assistenza, facendo il giro delle varie organizzazioni umanitarie, raggranellando qua e là un po’ di cibo (tramite i voucher alimentari, per far girare soldi nell’economia locale), prodotti per l’igiene, padelle e fornelli, coperte e qualche decina di dinari al mese. Gli operatori di Caritas Giordania – oltre 200 più 1.200 volontari -, registrano i dati, ascoltano le storie, differenziano gli aiuti a seconda dei bisogni più urgenti. Se necessario, li indirizzano ai loro centri sanitari. Hanno anche dei team volanti che li vanno a trovare direttamente nelle case. A volte ci sono casi più delicati, ad esempio famiglie con ragazze adolescenti che rischiano di diventare oggetto di traffico a scopo di sfruttamento sessuale, spacciato per matrimoni precoci. Negli ultimi tempi si moltiplicano, infatti, le richieste oscure di ricchi stranieri del Golfo disposte a comprarle per 500 dollari e poi buttarle via dopo 2 mesi. “Seguiamo questo tipo di famiglie con più attenzione, aiutandole a pagare l’affitto per evitare che vendano le ragazze”, precisa Laith Bisharat, emergency officer di Caritas Giordania”.

“Che Dio ti sollevi dalle tue pene”. Al centro Caritas di Zarqa, un’anonima città che sfiora il milione di abitanti, sono registrate 7mila famiglie. “Ogni giorno incontriamo 250/300 siriani e andiamo nelle case”, dice Paola Pazienti, che lavora per Caritas Giordania e ascolta con grande empatia queste storie drammatiche. Le donne con lei si aprono e piangono. Giorni fa una donna le ha raccontato di aver visto morire il marito in casa, asfissiato dalle armi chimiche. I due figli hanno perso parzialmente la vista. E Paola piange con loro. Ciò che la colpisce di più è “il modo in cui stanno reagendo al dolore, con grande forza, dignità e accettazione”. A fine visita, non manca mai di salutarli con i tipici saluti in arabo: “Che Dio sia con te” o “Che Dio ti sollevi dalle tue pene”. Fatima, 23 anni, velata di nero dalla testa ai piedi, sembra una bambina da quanto è minuta. Ha incredibili occhi che ridono. Perfino quando dice: “Mio marito è un martire”. Insieme alla cognata Samar, 26 anni, entrambe di Homs, sono state al campo di Zaatari due giorni e poi sono scappate anche da lì, con il resto della famiglia. Samar ha partorito il secondo figlio a Damasco, in un campo per sfollati interni. Mentre attraversavano di notte il confine a piedi, con il bimbo in braccio, sentiva fischiare gli spari dei cecchini sopra la testa.

“Hamdulillah”. Al centro Caritas di Mafraq, la cittadina più vicina a Zaatari, i siriani sono raddoppiati negli ultimi tre mesi: da 50/60 famiglie a 100/110 al giorno. Vengono seguite 9mila famiglie (45mila persone). Il 70% sono donne e bambini. La Caritas organizza il doposcuola e l’animazione. Il mese prossimo aprirà anche un ambulatorio. Sono tutti molto provati. “I casi più gravi li mandiamo dalla psicologa. Se ci sono torture li indirizziamo ad organizzazioni più esperte”, aggiunge il supervisor del centro Hussam Nasraween. Qui lavorano 13 operatori e 15 volontari. Tra loro anche un siriano, Amer, 26 anni, musulmano, fuggito da Homs e arrivato in Siria con moglie e due figli il 24 luglio 2011. È impressionante come riferiscano sempre la data con estrema precisione. La solita casa distrutta dai bombardamenti. “Volevano uccidermi. Una spia ha dato per sbaglio il mio nome al governo”. Amer ha conosciuto la Caritas e si è proposto come volontario. “Mi è piaciuto il loro stile e ho voluto dare un contributo”. Ora è nel team di operatori che va nelle case. Sogna di andare in Svezia, che ha accolto finora 11mila siriani. Al contrario Faez, 43 anni ma ne dimostra 60, di Homs, non desidera altro che tornare in Siria. Come il 70% dei profughi. Ha il viso stanco, gli occhi spenti. Mostra le ferite delle schegge sul braccio e sulla gamba. È fuggito con la moglie e i 7 figli, è entrato a Zaatari il 4 marzo 2012 e ci è rimasto un solo mese: “La situazione lì è insostenibile, non ci sono parole per descriverla. Non c’è sicurezza, avevo paura per le ragazze”. Ora paga con fatica un affitto ma riesce a mandare i bambini a scuola: “Hamdulillah. Grazie a Dio siamo vivi!”.

 
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