Giornata di sangue a Damasco. Mons. Tomasi: nessuna volontà politica di fermare la guerra
Ancora battaglia e morte a Damasco: secondo gli attivisti dell’opposizione, almeno 25 persone sono rimaste uccise in un bombardamento aereo su un quartiere residenziale nel sobborgo nord-orientale di Hamuriya. E stato colpito dai ribelli invece lo stadio di Tishrin, dove è morto un calciatore. Intanto cresce il timore per un contagio delle violenze nel vicino Libano: i ribelli minacciano ritorsioni contri gli Hezbollah, alleati libanesi del regime siriano. Il servizio di Marina Calculli:
Intanto, migliaia di civili continuano a fuggire in Giordania: secondo lOnu, sono oltre 4 milioni le persone che hanno bisogno di aiuti umanitari. Sulla situazione, Sergio Centofanti ha sentito mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso lUfficio Onu di Ginevra:
R. – Ieri, presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra, cè stata una riunione riguardo la situazione umanitaria in Siria. 44 Paesi hanno firmato un appello comune in cui si domanda soprattutto che ci sia rispetto per i civili che hanno bisogno di protezione e di assistenza umanitaria, e che si tenga conto, che le strutture mediche, come ospedali e cliniche, il personale medico, non possono essere utilizzati come obiettivi di guerra. Infatti, si vede che in Siria, in questo momento, il 55 percento degli ospedali pubblici sono danneggiati e un terzo sono fuori servizio. Questa situazione crea delle difficoltà molto specifiche per la gente, perché manca laccesso alle cure mediche necessarie specialmente nelle emergenze. Quindi lappello che gli Stati fanno in questi giorni è soprattutto quello di rispettare in tutto il territorio laccesso di aiuti umanitari e di rispettare le strutture sanitarie. Però, oltre a questa esigenza urgente, cè il fatto che i rifugiati – purtroppo – continuano a crescere. Globalmente, secondo le Nazioni Unite, sono circa 800mila i rifugiati siriani scappati dallinizio del 2012, e 300mila nuovi rifugiati sono stati identificati dallinizio del 2013. Si dirigono soprattutto nei Paesi vicini: Libano, Giordania, Iraq, Turchia ed alcuni sono arrivati anche in Egitto. Ma quello che fa più tristezza, in qualche modo, è il fatto che la grande maggioranza – quasi l80 percento – dei rifugiati sono donne e bambini. Quindi, queste persone si trovano particolarmente esposte a difficoltà – linverno è molto rigido in quella regione – e al rischio di violenze personali. Quindi, lappello che si fa ai Paesi, è di vedere se questi riescono a mettere disposizione i necessari aiuti finanziari per rispondere a questa massa di gente che ha bisogno. Ma a parte lurgenza dellaiuto umanitario, bisogna farsi una domanda più in profondità: perché non cè la volontà politica di agire per fermare questa violenza che continua ormai da due anni?
D. – Che cosa può fare la Comunità internazionale che non sta ancora facendo?
R. – Deve creare le premesse politiche per un dialogo con tutte le parti coinvolte, in modo da fermare questa conflittualità che ormai va avanti da due anni, tanto più che se continua questa violenza, i gruppi dellopposizione al governo più fondamentalisti prenderanno sempre più potere, con il rischio che la soluzione che tutti sperano – di un futuro democratico per la Siria dove possano partecipare tutte le minoranze in particolare, anche la minoranza cristiana – diventa un obbiettivo più difficile. Quindi è urgente che la Comunità internazionale, specialmente le potenze che hanno interessi immediati nella regione, si mettano a tavolino, possano arrivare a fermare la violenza e trovare almeno un inizio di soluzione politica.