di Paul De Maeyer
ROMA, sabato, 24 settembre 2011 (ZENIT.org).-Per rovesciare il regime del presidente della Tunisia, Zine el-Abidine Ben Ali, c’è voluto poco più di un mese, cioè dal 17 dicembre al 14 gennaio scorsi. Ancora più rapida è stata la caduta del suo omologo egiziano, Hosni Mubarak, che ha lasciato il potere l’11 febbraio scorso, cioè appena 18 giorni dopo l’inizio delle proteste popolari nel più grande Paese arabo.
Ben diversa è la situazione in un altro Paese chiave del Medio Oriente, la Siria, raggiunta dalla “Primavera araba” a metà marzo. Infatti, più di sei mesi dopo la prima manifestazione di protesta, svoltasi il 15 marzo davanti al più grande e famoso bazar o suq della città vecchia di Damasco, Hamidyieh, il presidente Bashar al-Assad è ancora in sella. Anzi, a differenza dei suoi omologhi Ben Ali e Mubarak, Assad junior ha scelto il pugno duro per silenziare le proteste.
La brutale repressione da parte dell’esercito siriano ha provocato secondo Navi Pillay, Alta commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti umani, finora circa 2.600 morti e non mancano le notizie di manifestanti torturati a morte dai temuti ed onnipresenti servizi segreti di Assad, i Mukhabarat. Uno di questi è il ragazzo tredicenne Hamza Ali al-Khateeb, di Daraa, il cui corpo senza vita è stato riconsegnato alla famiglia con evidentissimi segni di tortura. Altri hanno ricevuto “solo” un avvertimento dal regime. Al vignettista satirico Ali Ferzat, le forze di sicurezza hanno spezzato lo scorso mese le mani (anche se questo non gli impedisce di continuare a disegnare).
Per la comunità cristiana siriana, che secondo i dati dell’agenzia Fides (16 maggio) rappresenta circa il 5% della popolazione del Paese (cioè un milione di persone su un totale di 21 milioni di abitanti), le manifestazioni anti-Assad sono un pressante dilemma. Mentre in Egitto i copti si sono uniti ai musulmani nelle dimostrazioni contro Mubarak, la risposta dei cristiani alle proteste in Siria è stata finora cauta, quasi diffidente. Anzi, come osserva Georges Malbrunot su Le Figaro (11 settembre), alcuni noti membri della comunità cristiana partecipano alla repressione, come Georges Chaoui, che guida il cosiddetto “esercito elettronico” di Assad.
Da un lato, i cristiani siriani sanno – come ribadisce Carlo Giorgi su Terrasanta.net (16 settembre) – che la protesta è almeno in parte “autenticamente giovane, istruita e spontanea”. Dall’altro lato, sanno o intuiscono che le dimostrazioni hanno anche “un’altra anima”, ossia quella intollerante e violenta, come confermano filmati amatoriali di manifestazioni contro il regime con immagini di poliziotti e soldati uccisi, che la redazione di Terrasanta.net ha potuto visionare.
“L’impressione che abbiamo dall’interno è che sui problemi sociali ed economici si stanno inserendo gruppi che fanno di tutto per provocare il governo a usare la violenza”, aveva sostenuto già nell’aprile scorso ad AsiaNews (29 aprile) il patriarca melkita o greco-cattolico di Damasco, Gregorio III Laham. “Il futuro è molto incerto e inoltre non si sa dove va a parare, non si sa chi siano. Certo, vi sono giovani frustrati, ma molti dicono che fra loro ci sono criminali e anche musulmani fondamentalisti che gridano al jihad. Per questo noi temiamo che lasciando spazio alla violenza si provochi solo il caos”.
Molti cristiani si sentono intrappolati tra due fuochi. Dissociarsi dalle proteste di piazza e mantenere i tradizionali buoni rapporti con il regime, i cui esponenti fanno parte di un’altra minoranza, quella alawita (o alauita; da non confondere con gli aleviti in Turchia), significa infatti esporsi a quasi sicure rappresaglie in caso di caduta di Assad. Uno degli ispiratori della rivolta, lo sceicco Adnan al-Aroor, che vive in Arabia Saudita ed è stato qualificato da Al Arabya come un “sunnita moderato”, ha infatti annunciato che la carne delle persone opposte ad un cambiamento di regime sarà “tagliata a pezzi, sarà tritata e data in pasto ai cani” (Terrasanta.net, 16 settembre).
Emblematiche per il senso di disorientamento dei cristiani sono le parole di Randa, che con suo marito e tre figli vive nel cuore storico della capitale siriana. “Cosa stanno progettando per noi cristiani?”, ha detto la donna a Le Figaro (11 settembre). “Nessuno voleva credere che delle manifestazioni fossero scoppiate in Siria. Era inimmaginabile”, spiega a sua volta suo marito, Rami Khoury, che parla di un Paese “paralizzato” e teme una spartizione in tre entità tra drusi, alawiti e sunniti, con i cristiani sparpagliati nelle tre zone. “Siamo per il cambiamento – continua Rami -, ma a sei mesi dall’inizio della rivolta, non è chiaro chi si sta contendendo il potere? L’opposizione è divisa, dispersa, non ha ancora un programma”.
Unirsi alla protesta invece significa perdere la protezione offerta finora da Damasco e dover affrontare un futuro pieno di incognite. “Se il regime alawita di Bashar al-Assad dovesse cadere, le minoranze cristiane correrebbero un grave rischio. Potrebbe ripetersi quanto è accaduto in Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein”, ha spiegato a metà maggio padre Paul Karam a Fides (16 maggio). “Conoscendo la situazione interna è possibile che, vista la crescita del fondamentalismo sunnita e del fanatismo, se il quadro politico dovesse mutare radicalmente, i cristiani potrebbero diventare un bersaglio e soffrire molto”, ha continuato il sacerdote e missionario libanese.
A fargli eco è il sacerdote anglicano siriano Nadim Nassar, appena ritornato da un viaggio nella sua città natia, Latakia, uno dei luoghi simbolo degli scontri. “Il pericolo più grande del conflitto siriano è trasformarlo in un conflitto confessionale, in cui vengono sistemati vecchi conti rimasti in sospeso tra sunniti ed alawiti, cosa che trascinerebbe inevitabilmente tutte le minoranze religiose e razziali nella mischia”, ha detto al settimanale della Chiesa d’Inghilterra, Church Times (9 settembre).
A spingere molti esponenti cristiani a sostenere o a non rompere i ponti con il regime di Damasco è quindi proprio il timore di un nuovo Iraq. “Non abbiamo paura dell’islam, abbiamo paura che subentri il caos come in Iraq”, ha ripetuto senza mezzi termini, in una recente intervista alla Radio Vaticana (8 agosto), il patriarca Gregorio III Laham.
A finire al centro delle polemiche è stato il nuovo patriarca maronita del Libano, Béchara Rai, che durante la sua prima visita all’estero (la tradizione vuole che si rechi in Francia), ha cercato di spiegare in una serie di discorsi definiti “prudenti” dal vaticanista de Le Figaro (20 settembre), Jean-Marie Guénois, e “ben ponderati” da AsiaNews (8 settembre), il perché in Siria la cautela sia d’obbligo.
“Avrei preferito che si dessero più opportunità ad Assad per completare le riforme politiche che ha avviato”, ha dichiarato l’8 settembre il patriarca, accusato di essere troppo “mansueto” con Damasco (Le Monde, 15 settembre). “Non siamo a favore del regime, ma temiamo la transizione”, ha aggiunto Rai, eletto il 15 marzo (cioè lo stesso giorno dell’inizio delle proteste in Siria) come successore del cardinale Nasrallah Sfeir.
Molto chiare sono le parole di monsignor Louka al-Khoury, della Chiesa greco-ortodossa in Siria. “Voglio che gli europei e gli americani ci capiscono bene. Non possiamo illuderci. Se il tuo occhio è malato, dev’essere condannato tutto il corpo, come dice il proverbio arabo? No”, così ha spiegato il presule (Le Figaro, 11 settembre). Nella sua ottica, Assad ha sì commesso degli errori, ma questo non è un motivo per cacciarlo e scegliere la via che porterà al caos.
Altrettanto netto il noto islamologo e gesuita egiziano, padre Samit Khalil Samir, il quale invita però la comunità cristiana a mettere da parte la paura e a farsi coraggio. “E’ tempo di agire e parlare, anche per le Chiese, timorose di un’islamizzazione del Paese”, ha scritto su AsiaNews (3 agosto), ribadendo che la maggioranza della popolazione siriana non ne può più del regime di Assad. Anche se ha reagito “come d’abitudine con la forza e la violenza”, “il regime è ormai screditato e non si può più accontentare il popolo siriano con delle promesse o con delle nuove leggi”, come quella sui partiti politici promulgata di recente. “Le Chiese e i cristiani sapranno essere artigiani di pace e di non violenza, di fare delle opzioni coraggiose e difficili, testimoniando diritto e giustizia? Penso che tutti, governanti e popolo, abbiamo bisogno del nostro sostegno e non del nostro silenzio”, sostiene padre Samir.
Sul quotidiano libanese L’Orient-Le Jour (13 settembre), Antoine Ajoury ha detto che i cristiani siriani stanno offrendo agli oppositori del regime “i pretesti ideali per fare di loro un potenziale capro espiatorio”. “Il diniego della realtà rischia di essere fatale per loro”, avverte l’autore, che a sua volta invita i cristiani ad assumere il ruolo di moderatori e mediatori tra i diversi attori, a prendere il loro posto nella costruzione della nuova Siria, al rischio di essere emarginati. “Per fare questo – conclude -, devono prima superare la loro paura per la libertà”.
A questa conclusione è giunta anche Randa. “La Siria di domani non sarà più come quella di ieri”, ha detto sempre a Le Figaro (11 settembre). “Il muro della paura è caduto, e vale la pena correre dei rischi per conquistare la propria libertà”.
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