A febbraio il sole picchia forte su Juba, capitale di un Paese che non c’è. Sebbene il certificato di nascita della neonata Repubblica sudsudanese indichi il 9 luglio 2011 come data dell’indipendenza dalle regioni settentrionali, finora tutto è rimasto sulla carta. L’immagine del sistema Paese è il fatiscente aeroporto internazionale, il più squallido del continente. Lo scalo è disordinato, trascurato, affollato oltre la capienza… A parte i traffici di mercanti intraprendenti di nazionalità eritrea, keniana, etiope e ugandese, le attività amministrative e infrastrutturali sono allo sfascio, mentre la politica ufficiale è ostaggio di un gruppo dirigente che prende le vere decisioni.
Il rischio, ventilato alla vigilia dell’indipendenza, che le formazioni partitiche sudiste assumessero, sempre più una connotazione etnica, come già avvenuto in molti Paesi dell’Africa subsahariana, è purtroppo un dato di fatto. Si è dunque dissolto quello che era il collante politico dell’unità nazionale: gli ex ribelli dello Spla (Esercito di Liberazione Popolare del Sudan) che per sei anni, durante la fase di transizione prevista dagli accordi di Nairobi (2005), avevano amministrato le regioni meridionali attraverso il braccio politico del loro movimento, lo Mpla. Una realtà caratterizzata da una gerarchia piramidale, al cui interno erano rappresentate, con qualche distinguo, piccole e grandi etnie, dai Denka ai Nuer, dagli Shilluk ai Toposa, dai Lotuko ai Kuku, dai Kakwa agli Acholi, dai Madi agli Azande.
Purtroppo, è mancata una leadership autorevole capace di garantire una pacifica convivenza di queste componenti. Nel frattempo la corruzione dilaga e il costo della vita è andato alle stelle. Juba è la capitale africana più cara dopo la megalopoli angolana di Luanda, sebbene sia costellata prevalentemente di capanne, abitazioni in muratura basse con tetto in lamiera ed edifici fatiscenti. Le strade asfaltate solo una piccola parte della rete viaria urbana e il colore ocra della terra domina su tutto, costituendo un filtro cromatico che si disperde con la polvere sollevata dai camion. I sudsudanesi sbarcano il lunario come possono. I più fortunati, attraverso logiche nepotistiche, lavorano negli uffici governativi, o nelle organizzazioni straniere, mentre altri hanno messo in piedi chioschi e attività artigianali. I disoccupati, comunque, costituiscono la maggioranza della popolazione autoctona, mentre i militari solitamente arrotondano il salario estorcendo denaro alla povera gente.
Le divergenze, allora, riguardavano l’agenda politica della ribellione che differiva, al suo interno, secondo l’appartenenza etnica. Quando Garang morì in un misterioso incidente – il suo elicottero precipitò nel luglio del 2005, pochi mesi dopo la firma dell’accordo di pace a Nairobi –, furono in molti a sospettare che vi fosse la “longa manus” di Machar. Il successore di Garang, l’attuale presidente Kiir, ebbe anch’egli non poche difficoltà nel contenere l’esuberanza di Machar, soprattutto quando si trattò di definire la gestione delle risorse petrolifere nella regione del Great Upper Nile (Gup). Non è un caso se lo Stato di Unity, che occupa gran parte del Gup, sia ora sotto il controllo delle milizie di Machar. D’altronde, quando nel 1983 scoppiò la seconda guerra civile sudanese – detta Anya Nya II – le operazioni dei ribelli dello Spla si concentrarono proprio attorno al bacino petrolifero di Bentiu, 120 chilometri a ovest di Malakal, dove la Chevron aveva realizzato una base operativa.
È curioso, pertanto, che questo stesso scenario, con sfumature certamente diverse, si riproponga oggi con conseguenze che si stanno dimostrando apocalittiche. La mancanza di un dialogo franco tra le parti dimostra che nessuno dei contendenti ha le carte in regola per considerarsi estraneo al caos in cui è caduta la giovanissima Repubblica sudsudanese. E mentre il popolo soffre la fame, il governo di Juba ha pensato di acquistare armi per 14,5 milioni di dollari dalla Cina. La verità è che le autorità locali, con la loro condotta – maggioranza e opposizione, governativi e ribelli – hanno delegittimato lo Stato di diritto.
Venerdì scorso, il governo ha anche rinviato le elezioni di due anni, prolungando il mandato del presidente Kiir, in flagrante violazione del dettato costituzionale. La risoluzione sul rinvio delle elezioni deve essere votata dal Parlamento, ma si tratta di una formalità, dato che quasi tutti i deputati sono a favore del presidente, perché l’opposizione si è unita alla ribellione di Machar. Le elezioni, secondo la costituzione, si sarebbero dovute tenere prima del 9 luglio (data dell’anniversario dell’indipendenza), ma al momento è impossibile organizzare il voto a causa della guerra. Secondo il governo, la decisione di rinviare la consultazione darà la possibilità di portare avanti i negoziati di pace con Machar.
Trattative che finora si sono sempre dissolte, quasi fossero bolle di sapone. Kiir e Machar hanno firmato il 2 febbraio scorso l’ennesimo accordo per mettere fine al conflitto che dura da più di 15 mesi. Un’intesa che purtroppo non trova ancora un riscontro sul campo, a riprova che manca la volontà politica per passare dalle parole ai fatti. In questo inferno di dolore, tutti i missionari, unitamente ai volontari, sono tra i pochi ad aver compreso quale sia la cosa indispensabile per dare un futuro al Paese.
A parte l’impegno a fianco dei profughi, stanno investendo le loro migliori energie nell’ambito educativo, sostenendo ogni forma di scolarizzazione, da quella primaria e secondaria a quella universitaria, come nel caso dell’Università Cattolica o del Saint Mary College di Juba, per non parlare del progetto Kit, centro di formazione sui temi della pace e della riconciliazione, promosso dalle congregazioni “ad gentes” nei pressi della cittadina di Rajaf. Queste strutture sono “armi d’istruzione di massa” contro il peggiore nemico: l’ignoranza imposta dai signori della guerra.
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