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TURCHIA – (24 Gennaio 2018)

Reportage. Da questi porti salpa la Turchia dai due volti


Fulvio Scaglione mercoledì 24 gennaio 2018
Centri commerciali, scuole coraniche, traffici con la Siria, percorsi di conversione al cristianesimo. Contraddizioni e incognite nel Paese in perenne equilibrio tra turbo capitalismo e islamizzazione
Il monumento ad Ataturk a Iskederun (Foto: Scaglione)

Il monumento ad Ataturk a Iskederun (Foto: Scaglione)

Il vento che soffia dal golfo sembra mettere altra forza nel gesto di Mustafà Kemal, detto Ataturk. Circondato da bandiere che sventolano e da soldati e contadini come lui scolpiti nella pietra, leva il braccio indicando alla patria turca, di cui è appunto chiamato ‘il Padre’, una meta lontana. Somiglia a Lenin, anche lui con quel gesto nei mille monumenti che la Russia ha messo in soffitta. Ataturk no, è ancora lì: domina ogni piazza, dà il nome a qualsiasi opera pubblica che si rispetti, è presente in effigie in mille corridoi e sulle facciate dei palazzi. Ma chissà se quel che vede corrisponde a quanto aveva in mente. Il golfo alle sue spalle è pieno di traffico. Dal grande porto di Mersin partono ogni anno milioni di container per i più diversi Paesi del mondo, e chissà quanti saranno in futuro se la Cina riuscirà a completare il progetto della nuova Via della Seta per ferrovia, che proprio su quei moli dovrebbe trovare uno dei suoi sbocchi. Ma in queste acque, or non è molto, si vedevano anche strane cose. Navigli misteriosi che, sussurra la gente di qui, portavano armi ai miliziani del Califfato in Siria. E petroliere che scaricavano nei depositi turchi il greggio estratto laggiù dai tecnici dell’Isis.

Se poi guarda avanti, il Padre trova sul lungomare di Iskenderun la plastica rappresentazione della Turchia che piace al suo erede Recep Tayyip Erdogan, il quale dei turchi vuol diventare almeno il tutore. La trimurti regnante si chiama Dio-dollaro-nazione ed è ben rappresentata dal nuovissimo e scintillante centro commerciale che non sfigurerebbe in una delle capitali europee, dall’altrettanto nuova moschea fatta costruire dal sindaco, esponente dell’Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, il partito fondato da Erdogan dopo essere uscito dal carcere, nel 2001), e dai musei che esaltano la marina e l’esercito. Uno di seguito all’altro, marchio perfetto per un Paese dove l’autorità dello Stato, e soprattutto del Presidente, pretende di farsi garante dell’equilibrio tra turbo capitalismo e islamizzazione. L’esperimento prosegue, e diventa ancor più interessante se seguito dall’osservatorio dell’Hatay, la regione di cui Iskenderun è parte e che ha come capoluogo Antakya, l’antica Antiochia degli apostoli Pietro e Paolo. Negli anni scorsi qui si è avuto un rivolgimento economico importante. Le attività portuali si sono spostate a Mersin e a Iskenderun si è sviluppato un distretto per la produzione di filtri industriali (da quelli piccoli per gli aspirapolvere a quelli giganteschi per le fabbriche) che con 13 aziende fa da traino all’occupazione. Nel periodo del boicottaggio russo (2015) e del golpe (2016) la botta è stata forte e molti, anche qui, hanno cominciato a parlare di economia fuori controllo. Ma dall’autunno scorso il volano delle opere pubbliche si è rimesso in moto e il mormorio si è acquietato. Da dove arrivino i soldi per strade, ferrovie e porti non è chiaro. Forse Erdogan pensa di finanziare il debito con la crescita. Nel qual caso basterà aspettare.

Nello stesso tempo l’islam continua a penetrare le istituzioni e la vita quotidiana. Gli ultimi provvedimenti del Governo hanno istituito un corpo di ‘cappellani’ musulmani per le caserme e gli ospedali e concesso l’ingresso libero alle facoltà universitarie agli allievi delle scuole coraniche, laddove tutti gli altri ragazzi devono schivare il numero chiuso passando un esame d’ammissione. Pian piano la scuola, da luogo di diffusione della cultura, diventa anche luogo di educazione religiosa, ed è evidente la pressione che ne deriva sulla libertà d’insegnamento e di ricerca. C’è però anche un effetto rimbalzo: tra social e shopping cresce tra i giovani l’indifferenza religiosa, mascherata dal fervore dei più convinti. Il messaggio pacifico del cristianesimo attira un’attenzione che noi, da lontano, fatichiamo a immaginare. È un fenomeno spontaneo: la Chiesa latina, che non gode di riconoscimento ufficiale da parte dello Stato, non fa proselitismo ma padre Francis Dondo, il cappuccino indiano responsabile della comunità di Mersin e della parrocchia della concattedrale intitolata a Sant’Antonio da Padova, racconta di aver battezzato nove adulti nel 2016. In una Turchia, peraltro, dove non esiste il reato di apostasia e dove eventuali conversioni non trovano ostacoli, almeno da parte delle autorità.

La regione dell’Hatay, però, offre una miscela particolare anche per altri fattori. Qui il cristianesimo è di casa da due millenni. Fu ad Antakya (Antiochia) che i cristiani smisero di essere chiamati ‘nazareni’ o ‘galilei’ e cominciarono a essere chiamati ‘cristiani’, ovvero seguaci di Cristo. E nella valle dell’Oronte, a pochi chilometri da Iskenderun (che è sede del vicariato apostolico per l’Anatolia), erano insediate le popolazioni cristiane che, spinte via dall’avanzata dei musulmani, andarono poi a creare quello che oggi chiamiamo Libano. Così non stupisce che le comunità cristiane in questa parte di Turchia mostrino tuttora una resistenza e una vivacità più che notevoli. A poca distanza, inoltre, si trova l’antica Isso dove nel 333 Alessandro il Grande sconfisse il re persiano Dario III, spalancando le porte dell’Asia all’ellenizzazione. E poi, appunto attraverso la valle dell’Oronte, l’Hatay turco entra in contato con la Siria. In tempi normali da Aleppo a Iskenderun si arrivava in un paio d’ore di automobile e da queste parti i siriani venivano a fare le vacanze di mare. Molto è cambiato, da quei tempi. Oggi quelle due ore, o poco più, sono servite alle colonne corazzate turche, partite proprio dalle caserme dell’Hatay, per raggiungere il cantone siriano di Afrin e condurre l’ennesima ‘operazione antiterrorismo’ contro i curdi, in quell’area alleati degli americani e nemici dell’Isis ma ugualmente invisi a Erdogan.

Le gigantografie del presidente Erdogan e del 'Padre della patria' turca (Foto: Scaglione)

Le gigantografie del presidente Erdogan e del ‘Padre della patria’ turca (Foto: Scaglione)

La prossimità della Siria e delle sue tragedie vuol dire, oggi, 450 mila profughi siriani nell’Hatay e 25 mila nella sola Iskenderun, con l’aggiunta di migliaia di altri profughi iracheni sparsi qua e là. La gente storce il naso ma li ha comunque accolti, e le autorità li gestiscono con molto pragmatismo. I bambini possono frequentare senza costi le scuole pubbliche turche anche se spesso capita, per quanto detto prima sull’educazione islamica nelle classi, che i profughi cristiani scelgano altre strade temendo l’indottrinamento. Gli adulti invece possono lavorare, anche se al prezzo di salari che a volte sono la metà di quelli dei turchi pari grado. Cosa che fa arrabbiare i lavoratori turchi ma rende felici gli imprenditori, che arruolano personale qualificato e risparmiano sui costi. E così la nave turca va, con l’aspirante Grande Timoniere che sceglie, secondo convenienza politica del momento, la rotta del liberismo o quella del centralismo, il confronto o la rottura, la tolleranza o l’autoritarismo, la pace o la guerra. Cosicché la nave, per andare va. Ma chissà dov’è diretta.

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Il testo originale e completo si trova su:

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/turchia-dai-due-volti

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