USA/ISRAELE – ( 21 Marzo )

LA VISITA IN ISRAELE
 
Obama e il rischio nucleare

Per riavviare il processo di pace, forse sarebbe necessario un approccio diverso: un negoziato diretto con l’Iran, la rinuncia di Netanyahu all’attacco, la contemporanea esplicita estensione dell’ombrello nucleare americano a Israele e agli altri stati del Golfo, in un’ottica di chiara e credibile deterrenza
 
Stefano Costalli

 
Il Presidente Obama è giunto ieri in Israele per il suo primo viaggio all’estero dopo la rielezione. È una visita importante perché la prima da Presidente in carica e questa sua lontananza non lo ha reso molto amato nel Paese. Si tratterà dunque di una visita all’insegna della distensione e dell’amicizia, in cui gli atti simbolici e la comunicazione all’opinione pubblica giocheranno un ruolo importante, come i primi incontri con Netanyahu e soprattutto con Peres sembrano indicare. Qualche commentatore negli Stati Uniti ha addirittura parlato di visita turistica. Questa visione provocatoria pare eccessiva, ma se è vero che ci sono temi importanti sul tavolo di Obama e dei suoi interlocutori israeliani, purtroppo non ci sono garanzie di sviluppi positivi.
La priorità per Israele, in questo momento, è il nucleare iraniano. Netanyahu ha più volte chiesto a Obama di concordare un limite oltre il quale Israele potrà attaccare le installazioni nucleari iraniane con il consenso di Washington. I tempi oramai stringono. Gli Stati Uniti finora hanno preso tempo ed è probabile che Obama cercherà di continuare su questa linea, ribadendo di essere al fianco di Israele e promettendo maggiori sanzioni senza però prendere impegni definitivi sull’attacco. In verità, questo approccio alla questione finora non pare aver dato grossi frutti. Le sanzioni non hanno fermato il programma nucleare iraniano, anche se hanno indebolito il sistema Paese. Le minacce reiterate, invece, probabilmente hanno addirittura aumentato la determinazione del regime di dotarsi della bomba. D’altra parte, un eventuale attacco israeliano risolverebbe (forse) il problema nel breve periodo, ma avrebbe effetti ulteriormente destabilizzanti sulla regione e non garantirebbe risultati a medio e lungo termine, poiché l’Iran potrebbe uscire dall’attacco ancora più determinato. La questione non è di facile soluzione, ma ci sono elementi sufficienti per ritenere che sia necessario un approccio diverso. Questo potrebbe basarsi, ad esempio, su diversi punti: un negoziato diretto con l’Iran, la rinuncia di Netanyahu all’attacco, la contemporanea esplicita estensione dell’ombrello nucleare americano a Israele e agli altri stati del Golfo, in un’ottica di chiara e credibile deterrenza. Si tratterebbe di una linea di azione difficile, perché implicherebbe aprire un dialogo con un nemico dichiarato e tornare a parlare di uso delle armi nucleari, anche se in funzione deterrente. Tuttavia, una grande potenza deve saper fare anche questo, e dopo oltre dieci anni di fallimenti, forse potrebbe valerne la pena. La ripresa del processo di pace, è probabilmente il punto più importante in una prospettiva di lungo periodo, perché costituirebbe un grande segnale di cambiamento per la regione e sottrarrebbe un argomento prezioso alle correnti più radicali dell’Islam politico. Purtroppo, in questa occasione non ha molte possibilità di essere veramente discussa, aldilà delle dichiarazioni di circostanza. Affinché i negoziati ripartano seriamente, è indispensabile che la volontà nasca dai due contendenti, ma il fronte palestinese è diviso e Abu Mazen sembra non credere più nel processo di pace come possibilità concreta. Nel nuovo governo israeliano, formatosi dopo una tornata elettorale dove la destra di Netanyahu è stata ridimensionata, i ministri Tizpi Livni e Yair Lapid potrebbero spingere in questa direzione, ma all’interno di Israele ci sono anche ambienti che hanno interesse a mantenere l’attuale situazione di stallo, che permette ad esempio la graduale, seppure intermittente, espansione dei coloni.
Ovviamente, anche a Israele nel lungo periodo converrebbe una pace stabile e giusta, non fosse altro per il fatto che presto non sarà più in grado di far fronte all’esplosione demografica dei palestinesi dentro i propri confini. D’altra parte, se è vero che gli Stati Uniti hanno perso molta della loro influenza in Medio Oriente e che si stanno anzi progressivamente sganciando anche dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico, mantengono una forte influenza su Israele. Utilizzarla seriamente potrebbe però costare sul piano della politica interna, e seppure Obama non potrà più candidarsi, non pare voglia rischiare un irrigidimento dei rapporti con Israele per imbarcarsi in un’impresa lunga, impegnativa e incerta.
 
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