Non finirà mai di stupirci. Come sempre la complessità dellIran sfugge a tutti i tentativi occidentali di imbrigliarlo in facili schemi e sconfessa le nostre previsioni. Quattro anni fa, la più dinamica delle campagne elettorali aveva inaspettatamente rilanciato il movimento riformista; unillusione svanita dopo i massicci brogli a favore dellultraradicale Mahmud Ahmadinejad e le terribili repressioni seguite alla proteste popolari. Ora, dopo una campagna elettorale spenta e prudente, con i vertici riformisti ancora incarcerati o silenziati, ci si aspettava unaltra massiccia alterazione dei risultati per favorire il prescelto dalla Guida suprema o per gonfiare i dati dei votanti, essendo data per certa unaltissima astensione.
È successo invece il contrario: a milioni si sono recati a votare e hanno scelto a maggioranza il religioso moderato Hassan Rowhani, sostenuto con intelligente discrezione dagli ex presidenti Rafsanjani e Khatami (anchessi esponenti del clero sciita). Il che non significa che egli sarà davvero il prossimo presidente della repubblica islamica: fino al 3 agosto data in cui il rahbar Khamenei confermerà i risultati sono possibili manovre, riconteggi e colpi di mano da parte dei movimenti più radicali del regime.
Rowhani ha vinto intercettando i voti dei riformisti, i quali hanno preferito votare per un moderato pragmatico e ben conosciuto a livello internazionale ha guidato per anni le trattative nucleari con lOccidente piuttosto che optare per una sterile astensione. Ma ciò non fa di lui un riformista alla Khatami. Né, come in fondo a noi piacerebbe, un “nemico” di Khamenei, del quale è stato segretario fino al 2005 e verso cui ha un rapporto di prudente e di formale deferenza. Non fosse stato così, del resto, non sarebbe mai stato ammesso alla competizione elettorale. Non sarà quindi Rowhani a prendere di petto Khamenei o i sempre più potenti pasdaran. Eppure il suo successo non solo è positivo perché porta alla presidenza un moderato pragmatico e tollerante, ma anche per le indicazioni che ci offre.
La prima è che il popolo iraniano è allo stesso tempo più saggio e più determinato dei suoi pessimi governanti: ha deciso di votare e ha scelto il candidato che più di ogni altro rappresenta una richiesta di moderazione e cambiamento. La seconda indicazione è che forse Khamenei ha capito come il 2009 sia stato un errore che ha finito per indebolire la repubblica islamica: ha infatti snaturato i meccanismi di potere, rendendola troppo dipendente dai pasdaran, i quali stanno cercando di occupare ogni spazio politico, amministrativo ed economico. Il terzo messaggio è diretto proprio a questi ultimi: i candidati più forti sulla carta erano o ex comandanti dei pasdaran o a loro molto vicini, ma lIran ha mostrato di non volerli alla presidenza, perché il loro strapotere indispone molti. Non solo i riformisti, ma anche il potente ceto economico dei bazaari, tradizionalmente vicino al clero sciita e oggi indebolito dallaggressività economica delle guardie della rivoluzione.
Lultimo messaggio della giornata di ieri colpisce al cuore uno degli stereotipi più abusati e insopportabili diffusi in Occidente, quello di “regime degli ayatollah”. In questi mesi, infatti, sono stati in tre a lottare per evitare il peggio: Khatami, che ha tenuto assieme il fronte riformista, Rafsanjani, a cui è stato impedito di partecipare alle elezioni, e Rowhani. Tutti e tre sono religiosi, politici “col turbante”. Ma è anche grazie a loro se possiamo guardare a Teheran con un filo di speranza in più.
Riccardo Redaelli
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