E stato detto più volte che i movimenti e le correnti di ispirazione islamica non hanno avuto un ruolo nello scoppio delle rivolte, e non sono stati alla guida del movimento popolare, il quale si è caratterizzato per lassenza di slogan islamici nelle sue rivendicazioni.
Le forze politiche islamiche, al pari di tutte le forze di opposizione nei paesi arabi, sono state lungamente represse e perseguitate attraverso dure campagne di arresti e di intimidazione da parte dei regimi al potere, e di conseguenza non avevano la forza di organizzare un potente movimento di protesta.
Le rivolte popolari hanno invece colto di sorpresa i regimi proprio perché sono sorte dal basso, senza far riferimento a forze politiche organizzate, ma fondandosi sulle forze presenti nella società (giovani, operai, disoccupati, sindacati, esponenti della classe media, organizzazioni della società civile) spontaneamente organizzatesi per opporsi alla gestione dittatoriale ed oppressiva del potere da parte di tali regimi.
Il logico corollario dellassenza di forze ideologiche allinterno del movimento popolare è stato lassenza di slogan religiosi. Le rivendicazioni dei manifestanti si sono incentrate su principi universali, come i valori di libertà, giustizia, uguaglianza e rispetto dei diritti umani, e su battaglie non ideologiche come la lotta alla corruzione e alloppressione economica, politica e sociale.
Allo stesso tempo, però, bisogna ricordare che queste sollevazioni popolari sono avvenute in paesi a maggioranza musulmana cioè i cui cittadini si riconoscono in gran parte nella religione e/o nella cultura musulmana e che sono musulmani coloro che hanno manifestato e si sono opposti ai regimi.
E dunque naturale e scontato che le forze politiche di ispirazione islamica giochino un ruolo di primo piano nella fase post-rivoluzionaria, accanto alle forze di ispirazione laica, poiché così come vi sono cittadini musulmani che si riconoscono in queste ultime, ve ne sono molti altri che si riconoscono nelle prime. Più precisamente sostengono alcuni si potrebbe dire che nella fase post-rivoluzionaria si sta profilando una competizione tra forze islamiche e forze laiche per stabilire chi riuscirà a guadagnarsi la fiducia e il consenso di masse popolari che appaiono ancora confuse su chi possa meglio incarnare le loro rivendicazioni.
Questo discorso ovviamente si applica in particolare a quei paesi in cui i regimi al potere sono crollati e nei quali si sta assistendo a una transizione verso una nuova forma di governo (cioè la Tunisia e lEgitto). Ma la dialettica tra forze islamiche e forze laiche riguarda, seppure con forme e modalità diverse, tutto il mondo arabo, e dunque, ad esempio, anche quelle rivoluzioni che sono sfociate o rischiano di sfociare in una guerra civile, come quella libica, quella siriana e quella yemenita.
Sia in Tunisia e in Egitto, sia in paesi come la Siria, sebbene la sollevazione popolare sia stata spontanea e non ideologica, le forze politiche di ispirazione islamica hanno giocato un ruolo già durante la fase rivoluzionaria. Come già detto, non si è trattato certamente di un ruolo trainante (i movimenti islamici hanno preso parte alle rivolte solo quando erano già ben avviate e mostravano buone possibilità di avere la meglio sui regimi), ma di un ruolo che è stato non trascurabile a livello organizzativo, soprattutto nelle fasi più aspre dello scontro con gli apparati di sicurezza statali, se non altro perché i movimenti islamici sono stati tradizionalmente quelli più organizzati dal punto di vista gerarchico, logistico e finanziario.
L ECCEZIONE TUNISINA
In Egitto e in Tunisia, anche il dibattito e la competizione tra forze laiche e forze islamiche si sono affermati, in misura diversa, già durante la fase rivoluzionaria. Tuttavia, per molti aspetti la Tunisia può essere considerata un caso a sé stante in conseguenza del lungo processo di secolarizzazione che il paese ha vissuto fin dai tempi delindipendenza (1957) e del successivo regime del presidente Bourguiba.
Malgrado il carattere spesso forzato di tale processo (caratterizzato dallemarginazione delle istituzioni religiose, dallimposizione del divieto di indossare il velo, dalla repressione delle usanze islamiche), sono eredi del patrimonio laico e liberale della Tunisia sia le forze laiche che quelle islamiche.
I tunisini parlano a questo proposito di eccezione tunisina.
Per le popolazioni urbane del nord e della zona costiera del paese, dove vivono le élite ricche, più istruite e liberali, questo patrimonio laico è sempre stato fonte di orgoglio. Esso comprende una legge sullo statuto personale che prevede il divorzio su basi paritarie, e leggi che difendono le pari opportunità per le donne nellambito lavorativo e in quello dellistruzione.
Tuttavia la Tunisia ha anche unidentità islamica radicata nella società, che si riflette in un panorama politico islamico tuttaltro che monolitico, nel quale ha luogo un dibattito vitale e dinamico che spesso è in grado di interpretare le esigenze di ampie fasce della popolazione più di quanto non riescano a fare le forze di ispirazione laica.
Ad esempio, il partito Nahda, che storicamente rappresenta il partito islamico più radicato nella società tunisina, e che attualmente si sta riorganizzando dopo lunghi anni di durissima repressione da parte del regime, in diversi casi sembra riuscire a dar voce alle preoccupazioni economiche e sociali di vasti settori della popolazione, soprattutto nella parte centro-meridionale del paese, economicamente depressa. Le battaglie dei laici, per converso, non sembrano avere molto seguito al di fuori delle città costiere, tradizionalmente più ricche, ed in molti casi devono fare i conti con il fardello aggiuntivo di essere confuse con le politiche inique del vecchio regime.
Questa contrapposizione tra forze islamiche e forze laiche, che è una conseguenza della frattura culturale imposta dal colonialismo e dalle politiche dei regimi post-coloniali, è destinata a caratterizzare ancora a lungo il panorama politico tunisino, e probabilmente a rallentare levoluzione democratica della Tunisia a causa della difficoltà di trovare un accordo sui principi condivisi da porre alla base dellidentità nazionale del paese.
Nella fase post-rivoluzionaria, le élite laiche e liberali hanno cominciato a temere che lascesa delle forze islamiche potesse imporre un nuovo ordine politico in grado di cancellare le conquiste laiche del paese.
Dal canto loro, molte forze islamiche vogliono recuperare (ovviamente ciascuna secondo i propri schemi e le proprie convinzioni, che possono essere più o meno liberali) quei valori religiosi e culturali che, a loro giudizio, garantirebbero unevoluzione della società verso una maggiore giustizia ed uguaglianza, dopo che i valori egoistici ed individualistici promossi dal vecchio regime laico hanno portato al dilagare della corruzione e dellingiustizia sociale.
Il futuro della Tunisia si gioca pertanto anche sulla possibilità di giungere ad una riconciliazione tra istanze islamiche e laiche, ed alla definizione di principi condivisi in grado di garantire una maggiore omogeneità e solidarietà tra le diverse componenti della società tunisina, sostenendo quei valori di libertà, dignità e giustizia per i quali i promotori della rivoluzione hanno combattuto, contro un regime che, prima ancora che laico, era predatorio, fondato sulla corruzione e sulle clientele, e su un modello neoliberista selvaggio che si è rivelato devastante per il paese.
Al momento, lostacolo più grande alla realizzazione degli obiettivi della rivoluzione tunisina è rappresentato proprio dal fatto che il vecchio apparato di potere e le vecchie logiche economiche non sono ancora stati smantellati. Il rischio è che un inasprimento della contrapposizione laici/islamici faccia passare definitivamente in secondo piano la necessità di rimuovere questo ostacolo.
LA BATTAGLIA PER LEGITTO
Una contrapposizione analoga si presenta in Egitto, tuttavia con alcune aggravanti assolutamente non trascurabili: la maggiore frammentazione della società egiziana, il carattere complessivamente meno liberale del panorama politico islamico nel paese, ed il ruolo chiave che a livello geopolitico lEgitto occupa nella regione, il quale fa sì che molti attori regionali ed internazionali nutrano il desiderio che la transizione egiziana evolva secondo un orientamento non in contrasto con i loro interessi.
Lo scontro in corso in Egitto può essere descritto, secondo le parole di un commentatore egiziano, come una battaglia sulla natura dello Stato egiziano. In tale battaglia si fronteggiano due schieramenti: quello di coloro che hanno appoggiato gli emendamenti costituzionali, e che vogliono che una nuova costituzione venga formulata solo dopo le elezioni previste a settembre, e quello di coloro che chiedono a gran voce che la formulazione di una costituzione interamente nuova preceda le elezioni.
Il primo schieramento è formato essenzialmente dalle forze di ispirazione islamica, ed in particolare dai Fratelli Musulmani la forza di opposizione tradizionalmente più organizzata nel paese, che ritiene di trarre vantaggio dallattuale costituzione e da un rapido svolgimento delle elezioni, che non permetterebbe alle altre formazioni politiche di organizzarsi adeguatamente.
Il secondo schieramento è formato essenzialmente dalle forze laiche, le quali ritengono che solo dopo lapprovazione di una nuova costituzione che cancelli definitivamente gli squilibri del vecchio sistema di governo e fondi le basi di una vera democrazia, le forze politiche potranno confrontarsi su base paritaria in una competizione elettorale libera ed imparziale.
Dietro quella che potrebbe sembrare una semplice lotta per il potere si nasconde però una contrapposizione ben più profonda, tra due diverse concezioni dello Stato. Lo schieramento islamico vorrebbe uno Stato che si ispiri ai principi dellIslam: uno Stato civile basato sullIslam, come vorrebbero i Fratelli Musulmani (cioè uno Stato che partendo dalloriginario carattere universalistico dellIslam, una religione che tollera le minoranze e la diversità sia fondato sulla volontà popolare attraverso lo svolgimento di libere elezioni, e garantisca i diritti civili delle minoranze e dei gruppi svantaggiati, non sulla base del principio di laicità, ma appunto sulla base del principio universalista dellIslam), oppure una vera e propria teocrazia fondata sulla sharia, come vorrebbero i gruppi salafiti e le correnti jihadiste (che restano però forze minoritarie nel paese).
Lo schieramento laico chiede invece apertamente uno Stato fondato sul principio di laicità, partendo dallassunto che quella egiziana è una società multiconfessionale ed estremamente differenziata al suo interno, dove soltanto separando totalmente la religione dalla politica e anteponendo il principio di cittadinanza allappartenenza religiosa si possono garantire i diritti di tutti.
Buona parte della battaglia che verte attorno allattuale costituzione è in effetti incentrata sullarticolo 2, in base al quale lIslam è dichiarato religione di Stato e fonte del diritto. Le forze islamiche temevano che, se il referendum sugli emendamenti costituzionali fosse fallito, si sarebbe passati direttamente allelaborazione di una nuova costituzione prima di convocare le elezioni, con il conseguente rischio che larticolo 2 venisse escluso dal nuovo testo costituzionale, e con esso venisse cancellato ogni riferimento allIslam.
I Fratelli Musulmani ritengono che non vi sia contraddizione tra uno Stato fondato sullIslam e la salvaguardia dei diritti di tutti i cittadini, tanto più che larticolo 7 della costituzione attualmente in vigore sancisce luguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, a prescindere dalla razza e dalla religione. I laici, dal canto loro, temono che larticolo 2 possa diventare il fondamento di uno Stato islamico che discrimini la comunità copta e le altre minoranze.
I FRATELLI MUSULMANI COME STRUMENTO DELLA CONTRORIVOLUZIONE NEL MONDO ARABO?
Va detto però che le credenziali democratiche dei Fratelli Musulmani devono ancora essere messe alla prova, e numerosi osservatori egiziani ritengono che la leadership storica del movimento sia tuttora dominata da un orientamento illiberale.
Lo dimostrerebbe il fatto che, decidendo di votare a favore degli emendamenti costituzionali, i Fratelli Musulmani hanno permesso al Supremo Consiglio delle Forze Armate (SCFA), che attualmente gestisce il potere in Egitto, di mantenere in vigore la costituzione del vecchio regime con alcune modifiche puramente cosmetiche. E questa fra laltro la ragione per cui a favore degli emendamenti si sono schierati (oltre che ovviamente lSCFA che li ha promossi) anche i resti del vecchio partito di governo, il Partito Nazionale Democratico (NDP).
Ciò ha spinto molti a parlare dellesistenza di un tentativo di controrivoluzione in Egitto, che sarebbe fondato su un patto tra forze armate, Fratelli Musulmani e resti dellNDP, a scapito delle forze laiche e rivoluzionarie del paese.
In realtà, a guidare la leadership dei Fratelli Musulmani sembra essere soprattutto la preoccupazione di aggiudicarsi un ruolo di primo piano nel nuovo Egitto che si sta delineando. Così facendo, però, essa rischia di alienarsi definitivamente le forze egiziane laiche, e di compromettere il fragile processo democratico in atto.
Alcuni commentatori arabi hanno ricordato come storicamente la Fratellanza Musulmana abbia finito spesso per schierarsi con le forze più conservatrici nel mondo arabo.
Emarginata e perseguitata da Gamal Abdel Nasser in Egitto allindomani della rivoluzione degli ufficiali liberi del 1952, essa si trovò osteggiata anche dai sostenitori di Nasser nel mondo arabo. I Fratelli Musulmani si schierarono a quel punto con regimi monarchici come quello hascemita in Giordania e quelli del Golfo, di fatto i regimi più oscurantisti (sebbene il regime di Nasser o i regimi baathisti in Siria e in Iraq non fossero certo delle democrazie).
Erano i tempi in cui la guerra fredda araba tra due schieramenti quello panarabo guidato da Nasser e quello monarchico guidato dai sauditi rifletteva a livello regionale la Guerra Fredda planetaria fra sovietici e americani.
Molti esponenti dei Fratelli Musulmani furono ospitati dallArabia Saudita. Sebbene Riyadh abbia sempre nutrito una certa diffidenza nei confronti di questo movimento poiché la sua ideologia non coincide con lideologia wahhabita che rappresenta il fondamento della monarchia saudita, attraverso il sostegno di Riyadh i Fratelli Musulmani divennero il megafono della propaganda antisovietica (tanto cara agli americani) nella regione.
La rinascita dei Fratelli Musulmani in Egitto ebbe luogo dopo la sconfitta araba nella guerra del 1967, che segnò il declino di Nasser. Tale rinascita fu aiutata dal successore di questultimo, Anwar Sadat (il quale cambiò lo schieramento dellEgitto a livello internazionale, ponendolo al fianco di Washington e facendo la pace con Israele), allo scopo di contrastare lopposizione di sinistra e quella dei nasseristi in Egitto, ancora una volta con il sostegno saudita.
Un meccanismo non del tutto dissimile si generò in Siria: negli anni 80 i Fratelli Musulmani siriani furono sostenuti dalla monarchia hascemita giordana contro il regime baathista di Hafez al-Assad. Molti anni più tardi, i sauditi aiutarono ancora i nemici di Damasco mediando unalleanza tra la Fratellanza siriana e lex vicepresidente siriano Abdel Halim Khaddam, cacciato dal regime nel 2005.
Pur avendo un rapporto conflittuale con i regimi arabi, i Fratelli Musulmani si sono spesso rivelati funzionali a tali regimi, in Egitto come in Giordania (dove il rapporto fra la monarchia e la Fratellanza locale è stato caratterizzato da una lunga alleanza). In questi paesi, infatti, i Fratelli Musulmani si sono mostrati disposti a scendere a patti con i regimi sul piano politico pur di avere margine di manovra in ambito sociale e di poter svolgere la loro azione di proselitismo.
Ora molti temono che un meccanismo analogo possa ripetersi in Egitto. Numerosi osservatori ed esponenti delle forze laiche accusano i Fratelli Musulmani di aver stretto un patto di spartizione del potere con le forze del vecchio regime: i militari e i resti dellNDP. Un simile patto avrebbe la benedizione dei sauditi, interessati a mantenere lo status quo nella regione (e accusati di finanziare i movimenti islamici egiziani in generale, ed i movimenti salafiti in particolare).
Secondo i sostenitori di questa tesi, tale patto avrebbe il beneplacito degli stessi Stati Uniti, per ragioni non troppo dissimili da quelle di Riyadh: Washington preferirebbe pur sempre un Egitto in mano ai militari (legati da un rapporto di vecchia data con gli americani) ed ai Fratelli Musulmani (influenzabili da Riyadh), rispetto a un Egitto realmente democratico che modellerebbe la propria politica estera solo in base alle spinte delle proprie forze politiche interne e della propria opinione pubblica.
Dietro il carattere malleabile dei Fratelli Musulmani, disposti a scendere a patti con i resti del vecchio regime e con le forze straniere che in passato lo hanno sostenuto (piuttosto che allearsi con le forze egiziane realmente democratiche), vi sarebbe essenzialmente una leadership sclerotizzata che tende in ogni caso ad anteporre lautoconservazione del movimento ad ogni altra considerazione.
Tuttavia, questa leadership si trova comunque a dover fronteggiare incognite imprevedibili, originate proprio dallattuale processo di transizione. La Fratellanza, tradizionalmente caratterizzata da una base ideologica molto ampia, si trova necessariamente a dover compiere delle scelte più precise, e a dover definire dei programmi più chiari di fronte alle sfide politiche che lattendono.
La decisione della leadership di far rappresentare il movimento da ununica formazione politica, il Partito della Libertà e della Giustizia, i cui esponenti sono stati nominati invece di essere eletti dalla base della Fratellanza, ha creato numerosi malumori allinterno del gruppo.
Indicativi di tali tensioni sono stati la recente espulsione del riformista Abdel Moneim Aboul Fotouh, e lannuncio da parte di giovani esponenti della Fratellanza di voler creare un partito laico, la Corrente Egiziana (al-Tayyar al-Masri). Questi episodi denotano lesistenza di forti contrasti allinterno del movimento, tra riformisti e conservatori, e soprattutto fra vecchie e nuove generazioni. Tali fratture potrebbero rivelarsi insanabili e portare alla nascita di nuovi soggetti politici.
MODELLO TURCO O MODELLO PAKISTANO?
In generale il crollo del regime di Mubarak, e lapertura di uno spazio politico rimasto fino a pochi mesi fa soffocato dalla monopolizzazione del processo politico da parte del partito di governo, hanno determinato una vera e propria esplosione di nuove formazioni politiche, fra cui spiccano quelle di ispirazione islamica.
Oltre al nuovo partito dei Fratelli Musulmani, vi sono le correnti salafite (in passato contrarie alla partecipazione politica) che hanno dato vita a due partiti: al-Nur e al-Fadila. E perfino le correnti jihadiste, che nei decenni passati avevano scelto la strada del confronto armato con il regime, hanno deciso di scendere nellarena politica. Ciò ha creato un intero spettro di forze politiche islamiche, che si estende dalle tendenze più liberali a quelle più conservatrici.
E opinione di molti osservatori che questa apertura senza precedenti dello spazio politico porterà sul medio e lungo periodo alla nascita di partiti islamici più pragmatici e meno ideologici. Secondo lanalista Khalil el-Anani, nei programmi di questi partiti limportanza delle questioni legate allidentità, alla forma dello Stato, e al ruolo della religione nella sfera pubblica, cederanno progressivamente il passo alle questioni legate allistruzione, alla sanità, alla creazione di posti di lavoro, e così via.
Ma tutto questo avverrà solo a patto che la transizione democratica egiziana giunga a buon fine, e che laspra contrapposizione tra correnti laiche e correnti islamiche si stemperi tramite lidentificazione di alcuni principi condivisi.
Lemergere di queste problematiche ha spinto molti nel mondo arabo, ma anche in Occidente a cercare possibili modelli che possano servire da punto di riferimento in questa difficile transizione. In particolare si è fatto un gran parlare del cosiddetto modello turco, prefigurando una graduale trasformazione dei movimenti islamici arabi e, nello specifico, dei Fratelli Musulmani (soprattutto per quanto riguarda lEgitto) nellequivalente arabo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) in Turchia.
Tuttavia al di là dei limiti intrinseci allo stesso modello turco, che non rappresenta tuttora una democrazia compiuta, e nel quale sussiste ancora unaspra contrapposizione fra laici ed islamici diversi osservatori hanno messo in rilievo i rischi insiti nella tentazione di ricorrere a modelli decontestualizzati e a indebite generalizzazioni.
A questo proposito, è stato rilevato che: 1) il modello turco è il risultato del sovrapporsi di decenni di secolarizzazione forzata al carattere storicamente composito ed aperto dellIslam turco; 2) i partiti islamici in Turchia sono un fenomeno recente che ha cominciato ad acquisire influenza politica a partire dagli anni 80 del secolo scorso, mentre i Fratelli Musulmani hanno alle loro spalle quasi un secolo di storia che ha prodotto dei principi ideologici alquanto cristallizzati; 3) lAKP ha deciso da tempo di aderire ai principi della democrazia allinterno di uno Stato laico, mentre molti movimenti islamici arabi ancora dibattono su quale debba essere la forma dello Stato, e non sembrano aver accettato il principio della laicità dello Stato.
I Fratelli Musulmani ha scritto il giornalista egiziano Abdel Halim Qandil, coordinatore del movimento di opposizione Kifaya non assomigliano affatto allAKP, ma semmai al Partito della Felicità (Saadet Partisi) che non è mai riuscito a entrare nel parlamento turco.
Se, dunque, un modello vicino a quello turco potrebbe in qualche modo affermarsi in Tunisia (dove il primo presidente, Habib Bourguiba, fu paragonato da molti a Mustafa Kemal, padre dei turchi), alcuni temono che in Egitto qualora dovesse persistere lattuale clima di tensione e di aspre contrapposizioni a livello politico, sociale e confessionale possa affermarsi un modello pakistano, dove un esercito con tendenze islamiche sovrintenderebbe dietro le quinte a un governo civile guidato da uno o più partiti islamici eletti.
Secondo coloro che paventano questo scenario, uno Stato di questo genere affiancherebbe ad una possibile acquiescenza e subordinazione in politica estera e nelle politiche economiche unintransigenza culturale e religiosa sul piano interno. Esso garantirebbe la sudditanza dellEgitto a livello regionale ed internazionale per gli anni a venire, ed una rapida chiusura del fragile spazio democratico aperto dalla rivoluzione in questi mesi, a vantaggio di un inasprimento delle tensioni settarie e dellintransigenza ideologica e religiosa.
Questa ipotesi rappresenta indubbiamente lo scenario peggiore, che tuttavia potrebbe facilmente verificarsi qualora dovessero persistere le condizioni attuali il pugno di ferro adottato dallesercito, la polarizzazione tra forze islamiche e laiche, le tensioni confessionali fra musulmani e copti affiancate da un inasprimento della crisi economica e sociale nel paese, e da un progressivo affermarsi, nel panorama della forze islamiche, di quelle più conservatrici (ed allo stesso tempo potenzialmente soggette allinfluenza di forze islamiche esterne).
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