ONU-PALESTINA – (20 Settembre)

Un tempo favorevole? Intervista con p. Jamal Khader (Università di Betlemme)

“Andremo alle Nazioni Unite con 3 obiettivi: chiedere alla comunità internazionale di riconoscere lo Stato che è stato dichiarato nel 1988, aiutarlo a ristabilire un processo di pace significativo e spingere la comunità internazionale a guardare alle continue violazioni della legge internazionale da parte di Israele”. Così Ghassan Al-Khatib, portavoce dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), spiega i motivi che spingeranno, il prossimo 23 settembre, il presidente Abu Mazen a chiedere all’Onu il riconoscimento dello Stato palestinese. Un pieno riconoscimento come stato membro delle Nazioni Unite che probabilmente non verrà accettato a causa del veto americano al Consiglio di Sicurezza ma che quasi certamente garantirà ai palestinesi lo status di ‘osservatore permanente non membro’. Si va, forse, verso quel “momento di grazia”, quel “kairos” di cui si parla nel documento “The Kairos Palestine document”, firmato e diffuso in vista del Natale 2009, da un gruppo di leader cristiani di diverse confessioni, in cui si dice che “la pace è possibile” ed è la sola speranza per il futuro della Terrasanta? Il SIR lo ha chiesto ad uno dei promotori del documento, padre Jamal Khader, che insegna Studi per la pace e Strategie per la risoluzione dei conflitti all’interno del master in Cooperazione Internazionale e lo Sviluppo (Micad) all’Università di Betlemme dove presiede anche il Dipartimento di Studi Religiosi.

Che cosa significa per il popolo palestinese vedersi riconosciuto dall’Onu il proprio Stato, anche come ‘osservatore permanente non membro’?

“Ciò che vogliamo dalla famiglia delle Nazioni è che ci riconosca come un popolo che merita uno Stato, come una nazione tra le nazioni. Stiamo vivendo la più lunga occupazione militare dei tempi moderni, ed è giunto il momento di essere riconosciuti. Siamo uno Stato sotto occupazione, e non viviamo in una ‘terra contesa’. Questi sono territori palestinesi, il mondo deve riconoscerlo. Non chiediamo lo status di osservatore permanente. Come Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), abbiamo già lo status di osservatore, vogliamo un pieno riconoscimento. Allora avremo qualcosa da negoziare: siamo un popolo, questa è la nostra terra, la presenza israeliana è occupazione. Dopo questo riconoscimento, i negoziati potranno concentrarsi su come applicarlo al terreno”.

Il riconoscimento ed il conseguente passaggio di nome da Territori palestinesi a Stato palestinese potrà segnare, davvero, un radicale cambio della realtà attuale?

“Non cambierà nulla sul terreno, questo è vero, ma almeno sapremo dove stiamo andando con i negoziati. Con questo riconoscimento, Israele non può ignorare il fatto che, secondo il diritto internazionale e con una decisione presa dalla comunità internazionale, questo è uno Stato occupato. Israele non sarà più presentato come colui che offre o dona ai palestinesi, ma come colui che restituisce ciò che già appartiene loro. Il riconoscimento, in una parola, cambierà il tipo di trattative e dei rapporti con Israele”.

Crede che un tale riconoscimento possa riaprire vie di negoziato oppure rischia di irrigidire e provocare dure reazioni da parte di Israele?

“L’obiettivo di ricorrere all’Onu è anche quello di riaprire la strada a importanti negoziati. Quelli precedenti erano privi di significato. I negoziati devono avere uno scopo e una direzione. Vogliamo raggiungere una pace giusta, con lo Stato di Palestina che vive fianco a fianco, pacificamente, con Israele. È la soluzione dei due Stati. Siamo consapevoli che Israele non faciliterà le cose, rifiutando qualsiasi passo verso la pace: esso vuole solo la terra e costruire sempre più insediamenti sulla nostra terra. Speriamo che tutto cambi e che politici saggi si rendano conto che non c’è altra via che l’applicazione delle risoluzioni se vogliono una pace duratura”.

Le chiese locali sono favorevoli a questa richiesta? Nei giorni scorsi i leader delle Chiese di Gerusalemme hanno firmato una dichiarazione comune senza però esprimere giudizi sulla richiesta…

“Le Chiese vedono questa richiesta come un atto politico e non vi si oppongono. A livello locale, i cristiani appoggiano la scelta di andare alle Nazioni Unite e stanno promuovendo molte attività: dichiarazioni, marce pacifiche, manifestazioni, festival ed altro. Sono palestinesi e vogliono il futuro migliore per la Palestina ed Israele: vivere in pace, giustizia, sicurezza e dignità”.

Lei è uno dei promotori di Kairos Palestine: il riconoscimento di uno Stato Palestinese può essere annoverato e aggiunto tra i “segni di speranza” citati nel documento?

“Sarà un grande segno di speranza che incoraggerà i cristiani non solo a rimanere nel Paese, ma anche a tornare. Nel testo ‘Kairos’ chiediamo di vivere fianco a fianco in pace e in giustizia. Abbiamo a cuore le sofferenze e le umiliazioni dei palestinesi, ma ci preoccupiamo anche del futuro degli israeliani. Noi, come loro, vogliamo vivere in sicurezza e in pace e l’unico modo è quello di porre fine all’occupazione. Allora si assisterà ad un nuovo inizio, a un grande cambiamento nelle relazioni tra i due popoli. Quando abbiamo iniziato i negoziati con Israele il mondo ci ha lasciati soli, quando abbiamo usato la violenza il mondo ci ha puniti e ci ha stigmatizzato come terroristi. Adesso che stiamo prendendo la strada della non violenza e della diplomazia, spero che il mondo non ci abbandoni”.


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