PAKISTAN – (14 Settembre)

Il rischio di amare Intervista con Paul Bhatti (Pakistan)

Sono 13.400 i martiri della fede cattolici che hanno reso testimonianza a Cristo fino alla morte. E il XX secolo è stato un secolo di persecuzioni: rispetto ai 19 secoli passati in cui ci sono stati 4 milioni di morti cristiani, 2/3 sono caduti nel ventesimo secolo. “Vittime dei diversi totalitarismi, dell’idolatria dello Stato e della razza, di guerre etniche e tribali. Alcuni sono morti perché hanno voluto restare a fianco dei loro fedeli nonostante le minacce”. A dare i numeri del martirio cristiano nella storia anche recente dell’umanità, è stato mons. Mark Stenger, vescovo cattolico di Troyes e presidente di Pax Christi Francia, intervenendo ad una tavola rotonda dedicata ai “Martiri e testimoni della fede”, durante l’incontro interreligioso “Bound to live together. Religioni e culture in dialogo”, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio a Monaco di Baviera dall’11 al 13 settembre. “La testimonianza resa a Cristo fino al sangue – ha detto il vescovo – è diventata un patrimonio comune a cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti” e “la memoria di questi martiri non deve essere perduta perché il loro sacrificio è un segno di speranza per il futuro. Essi non sono testimoni di un odio subito. Sono testimoni che l’amore è più forte della morte. Possano i martiri della fede aprire cammini della solidarietà e del dialogo che conducono alla pace”. Il vescovo francese ha reso un omaggio particolare a Shahbaz Bhatti, ucciso il 2 marzo 2011 a Islamabad, e all’arcivescovo caldeo di Mosul (Iraq), mons. Faraj Rahho, sequestrato e ucciso nel 2008. A Monaco di Baviera abbiamo incontrato Paul Bhatti, fratello di Shahbaz, consigliere speciale del primo ministro per le Minoranze in Pakistan.

Che cosa significa per lei essere fratello di un martire della fede?

“Se devo essere onesto prima della sua morte, non ero così convinto che fosse un grande. Tante cose le ho scoperte dopo la sua morte. Aveva nel cuore la pace nel mondo per cui mi ha lasciato un messaggio e un’eredità molto forti. Dalla sua testimonianza ho deciso di continuare la sua opera”.

Ha paura?
“Sì, c’è un po’ di paura. Siamo essere umani. Però penso che se uno fa delle scelte, la paura viene messa da parte. Non si può avere la pace, senza rischiare”.

Chi era Shahbaz Bhatti?
“La sua morte ci ha lasciati scossi, afflitti. Il Pakistan ha perso un leader coraggioso. Con la sua morte il mondo ha perso un attivista coraggioso di Cristo. Io ho perso un fratello, un amico, un collega. La sua missione era liberare i cristiani dagli artigli della persecuzione religiosa. Era stare accanto ai poveri e agli emarginati. Era costruire una società in cui tutti potessero vivere insieme in armonia e con pari dignità. Ed era pronto a morire per queste idee”.

Crede che ci sia speranza per il Pakistan?
“Sì. Io ne sono convinto. Basta intraprendere la strategia giusta, lavorare con la gente giusta. Non si può lasciare. È vero quando si dice che perdere la speranza è un peccato. Perciò io non perdo la speranza. Continuo a credere che con il coinvolgimento del mondo e con l’opera intrapresa da mio fratello che ha sensibilizzato la comunità locale e internazionale, possiamo arrivare ad alcuni obiettivi importanti”.

Il presidente della Repubblica federale tedesca le ha rivolto un saluto particolare e le ha detto: “Siamo accanto a lei”. Come vuole che il mondo le sia accanto?
“Vorrei essere appoggiato per la nostra lotta per la pace, per il nostro impegno contro ogni forma di odio, intolleranza, discriminazione”.

Ma concretamente come?
“Abbiamo fondato una Fondazione (www.sbmt.org – intitolata a mio fratello Shahbaz) i cui obiettivi sono la lotta contro la povertà, perché nel nostro Paese i cristiani sono i più poveri e i più marginalizzati. Quindi lotta per l’educazione e promozione di dialogo interreligioso. La Fondazione ha poi avviato progetti per le cure sanitarie primarie. La Fondazione è nata dal fatto che avendo cariche politiche e governi instabili si rischia di far perdere continuità ai progetti avviati”.

Perché ha partecipato all’incontro di Monaco di Baviera?
“Conosco la Comunità di Sant’Egidio perché erano in contatto con mio fratello. Con lui avevano avviato una collaborazione costante e, subito dopo la sua morte, ho cominciato a conoscerli e ad approfondire, condividendo con loro obiettivi e modo di agire. Compito loro e obiettivo anche nostro è di diffondere la pace nel mondo e alzare la voce contro la discriminazione e la violenza. Venire a questo incontro significa dare un messaggio: vivendo insieme e ascoltando i problemi anche di chi ci odia, è possibile raggiungere un accordo per una soluzione di pace”.

a cura di Maria Chiara Biagioni, inviata SIR a Monaco di Baviera


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