AFGHANISTAN – (11 Gennaio)

Preti in mimetica

L’esperienza dei cappellani militari in zona di conflitto

“Signore, aiutami a essere un buon comandante. Tutti questi anni di preparazione, di studio e di esperienza, so che devono condurmi a un unico scopo: servire gli altri. Fa’ che le mie conoscenze possano aiutare chi ha bisogno di me; fa’ che il mio sapere salvi vite umane; fa’ che la mia guida renda meno bestiale il conflitto”. “Signore, sono pronto. Indosso il giubbetto antiproiettile e l’elmetto. Si parte. È la mia missione su strade sconnesse, bucate dal male, tempestate di violenza. Devo stare attento, guardarmi attorno, scrutare i movimenti di chi incrocio per la via, per capire se condivide la pace che desidero portare, la convivenza dei popoli che la mia presenza cerca di affermare”. Si prega così a Herat, nella base di Camp Arena, a guida “Brigata Sassari”, nell’ambito della missione Isaf. Sollecitati dal cappellano militare, don Gianmario Piga, i soldati scrivono e offrono i loro pensieri, le loro riflessioni, le loro emozioni, così le messe sono più vere e partecipate. Don Gianmario, originario di Cagliari, è cappellano della “Brigata Sassari” e questa è la sua quinta missione all’estero.

Un tempo favorevole. Un ministro di Dio in mimetica, in Afghanistan. Converrà con me che è quantomeno inconsueto? “L’esperienza in teatro operativo, per un sacerdote, è un tempo favorevole, perché permette di vivere quotidianamente, a stretto contatto con i soldati, credenti e non. È bene che noi ci siamo, per ricordare loro, in ogni momento, gli alti valori della fede. Proprio perché si ha a che fare con le armi, bisogna formare mente e cuore, perché non siano strumenti di violenza insensata. La vicinanza mi permette di conoscere i ragazzi profondamente: alcuni sono forti, altri più deboli, ci sono persone determinate e altre in difficoltà. Prima o poi tutti hanno un momento di titubanza, di sconforto; poi ci sono la mancanza della famiglia, la stanchezza fisica e lo stress dell’attività quotidiana. Qui si vive con il rischio e, dove c’è rischio, si alzano di più gli occhi al cielo. Io raccolgo gli sfoghi, le ansie e le preoccupazioni. A volte, prima di partire, mi chiedono una preghiera, una benedizione. Bisogna prendere spunto da queste realtà per farle maturare”. In questa terra martoriata, spostarsi liberamente è un miraggio. Si esce solo su mezzo blindato e con la scorta armata, perciò non si può fare spesso come don Gianmario vorrebbe. “Per fortuna non sono solo. Siamo quattro preti nel territorio di competenza del comando italiano: a Farah c’è don Simone, a Baqwa don Marcello, a Bala Murghab, la base più a Nord-Est, don Marco Galanti”. Quest’ultimo, originario di Pavia, in Italia è di stanza a Solviate Olona (Varese), ma con alle spalle esperienze in Kosovo, Bosnia e Libano.

All’essenza del Vangelo. Capodanno è arrivato prima per i 450 ragazzi della fob “Columbus” (base avanzata), nella provincia di Badghis: brindisi rigorosamente alle 22, perché domani sarà un altro giorno in prima linea. Perché qui, in questo angolo di mondo al confine col Turkmenistan, circondato da montagne di sabbia, il rischio di un attacco da parte degli “insurgents” (i rivoltosi, ndr) è reale e costante. La sera, torce spente, per non diventare bersagli. L’oscurità è totale. E poi c’è il freddo, d’inverno la temperatura scende anche a venti gradi sotto zero, e la doccia calda non è scontata. Avevano tutti gli occhi lucidi mentre ascoltavano le parole di don Marco: “Ricordiamo i militari caduti e le vostre famiglie, che questa sera sono qui, insieme a noi, anche se siamo lontani migliaia di chilometri”. Don Marco Galanti, come nasce la “vocazione da cappellano militare”? “Non l’avevo certo programmato. Su proposta dei superiori della mia diocesi ho dato la disponibilità a un annuncio di Chiesa un pochino diverso. E, poiché mi trovo bene, a distanza di anni, mi rendo conto che probabilmente il Signore mi aveva preparato questa strada. Cresciuto dai salesiani, per me il prete ha un compito educativo, è prete di oratorio e qui, questo aspetto c’è”. Dato il luogo, più che di prete di oratorio, mi sembra opportuno parlare di prete in trincea… “Sì, però i ragazzi mantengono il cuore dei ragazzi, qualsiasi abito indossino e in qualsiasi ambiente si trovino. Perciò, il mio compito è quello di animare il cortile. Il cortile è il luogo della crescita, sia spirituale sia umana. In missione, il cuore e l’anima sono più sensibili perché si è lontani dagli affetti. E se tu, prete, hai le parole giuste al momento giusto, puoi avvicinare gli uomini, riportandoli all’essenza del Vangelo”.

a cura di Romina Gobbo (Afghanistan)


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