Questo paradosso ci allontana, quasi ci respinge dalla loro realtà, e ci impedisce di studiarla. Lansia di anteporre un giudizio di condanna fa premio sul desiderio di capire, che fatalmente rimane inappagato. Senza cedere a questa inerzia, Domenico Tosini, docente di Sociologia allUniversità di Trento, in <+corsivo>Martiri che uccidono. Il terrorismo suicida nelle nuove guerre<+tondo> (Il Mulino) ne ha studiato la fenomenologia seguendo il metodo delle scienze sociali: sono attentatori suicidi coloro che sanno anzi scelgono di morire nellazione violenta di cui sono autori; per loro, la morte non è solo un rischio implicito, come sempre avviene nella lotta armata; è una certezza perché il corpo dellattentatore è esso stesso unarma doffesa, è il veicolo essenziale delliniziativa assassina.
Professor Tosini, il terrorismo suicida è dorigine esclusivamente religiosa, o si conoscono altre matrici dello stesso fenomeno?
«La religione non è una condizione necessaria: Il PKK turco e le Tigri Tamil dello Sri Lanka, per esempio, applicano questi metodi pur avendo una cultura secolare. Ciò detto non si può non riconoscere che negli ultimi trentanni arco di tempo che prendo in analisi nel libro la maggior parte dei terroristi suicidi erano ispirati da un credo. Erano quasi sempre islamisti estremisti, vale a dire jihadisti di confessione sunnita o sciita».
Perché nella sua analisi si è limitato agli ultimi trentanni: in fondo si sarebbero potuti includere anche i kamikaze giapponesi della Seconda guerra mondiale. Non trova?
«Senza dubbio. E volendo si potrebbe arrivare fino alletà antica, citando due esempi famosi: in Giudea, ai tempi della dominazione romana, vi erano dei guerriglieri come si direbbe nel linguaggio moderno denominati sicarii che erano attentatori suicidi. In Persia nellXI e XII secolo una setta sciita, nota con il nome di assassini, praticava questa forma di lotta armata, così come i guerriglieri vietnamiti del recente conflitto. Tuttavia, allinizio degli anni 80 è iniziata una stagione nuova con la lotta del partito sciita di Hezbollah, che nel Sud del Libano si opponeva allinvasione israeliana. Hezbollah è il frutto maturo di una radicalizzazione che negli ultimi decenni ha attraversato tutto lIslam politico: per quanto riguarda i sunniti, in buona misura grazie alla riflessione di Sayyid Qutb (1906-1966), un autore egiziano degli anni 60 che veniva dai Fratelli musulmani (a lui si ispirava al-Jihad, la formazione paramilitare che nel 1981 assassinò Sadat: in questa stessa organizzazione ha militato Ayman al-Zawahiri, che ha assunto la leadership di al-Qaeda dopo la morte di Bin Laden). In riferimento agli sciiti, lestremismo ha tratto spinta naturalmente dalla rivoluzione vittoriosa dello ayatollah Khomeini in Iran».
Cosha di nuovo questa forma di terrorismo?
«Una complessa identificazione del fronte nemico: questultimo viene ripartito in nemico interno, che coincide con i regimi corrotti e autocratici che lIslam radicale cerca di spodestare (si pensi a Reza Pahlavi, lo Scia persiano al potere fino al 1979, oppure ai regimi sconfitti dalla Primavera araba) e nemico esterno che a questi regimi si appoggia. Questultimo è rappresentato dallOccidente, e in particolare dagli Stati Uniti che attraverso i loro addentellati politici ed economici tenterebbero di continuare una sorta di dominazione coloniale. Al-Qaeda ha condiviso questa analisi, aggiungendovi una tattica di lotta del tutto inedita: se prima il nemico veniva combattuto sul suolo arabo, per spingerlo ad abbandonarlo, al-Qaeda lha inseguito a casa propria raggiungendo un livello daggressività senza precedenti (si pensi non solo all11 settembre ma anche alle bombe sui treni spagnoli del 2004 e agli attentati nella metropolitana di Londra nel 2005). È quello che nel libro chiamo jihadismo pan-islamico globale».
Cosa può fare lOccidente per evitare linsorgere del terrorismo suicida?
«È un quesito a cui ho cercato di rispondere nel mio libro, perché è evidente che il fenomeno, in ampia misura, è una risposta violenta alla pessima percezione che si ha di noi e in particolare degli Americani in quei Paesi: dal loro punto di vista è una lotta contro lOccidente, per linterferenza che questi esercita nelle loro comunità. In primis direi quindi che gli occidentali dovrebbero evitare di occupare militarmente i Paesi musulmani (solo in Afghanistan e Iraq, dopo linvasione americana, si sono avuti il 68% del totale degli attentati suicidi verificatisi dagli anni 80 fino ai giorni nostri). In aggiunta dovremmo togliere il nostro sostegno ai regimi autoritari e corrotti, favorendo lautonoma democratizzazione delle popolazioni musulmane».